Tragica solitudine
Vertigine del vuoto

Si è parlato a lungo del dramma che si è consumato sull’autostrada A14, a Francavilla al Mare, in provincia di Chieti. Fausto Filippone, 49 anni, manager di azienda, prima ha lanciato da un viadotto della A14 la figlia di dieci anni, Ludovica. Poi è rimasto per ore aggrappato alle reti esterne della protezione autostradale. Alle venti si è lanciato anche lui nel vuoto. In mattinata, a Chieti Scalo, la moglie dell’uomo, Marina Angrilli, insegnante di 51 anni, era caduta dal secondo piano di un palazzo, un volo di circa dieci metri. Gli investigatori non escludono che sia stato il marito a spingerla nel vuoto.

Il fatto è un fattaccio talmente tragico e strano, che viene la voglia di definirlo inclassificabile e di emarginarlo così. Ma sarebbe troppo semplice. I fatti più strani, infatti, sono spesso stranamente significativi. Gridano, esasperandole all’estremo, delle verità che non riguardano solo i protagonisti.

Tutto quello che si letto della tragedia di Francavilla è segnato da relazioni in crisi: marito e moglie, padre e figlioletta. Non è dato sapere se la crisi delle relazioni interne era causa o effetto di crisi delle relazioni esterne alla famiglia: amici, parenti, vicini…

L’ennesimo dramma esplode, ancora una volta, sui legami che finiscono. Un dato così semplice rimanda a un altro, altrettanto semplice: che si ha una fame enorme di legami. Solo che, semplicemente guardandoci attorno, ci accorgiamo che i legami scarseggiano. Non è necessario essere dei sociologi per prendere atto che le persone che vivono sole sono arrivate a percentuali impressionanti. Nello stesso tempo, anche le famiglie sono sempre più isolate. Sono venute meno - in città moltissimo, ma sempre più anche nei paesi - le reti più larghe, le relazioni plurali che danno alla singola famiglia e dalla singola famiglia ricevono.

Quando anche i pochi legami esistenti traballano, viene a galla la sproporzione fra le molte relazioni che si vorrebbero e le poche che si hanno, fra le relazioni «calde» delle famiglie e delle amicizie e le relazioni «fredde» del lavoro e delle vicinanze. A un certo punto si scopre di avere molta fame di ciò che non si ha, e quella fame diventa tragicamente insopportabile.

Il dramma di Villafranca sembra nascere da questa sproporzione. Leggendo le cronache del fatto, alcuni particolari, soprattutto, impressionano. La bambina sembra non avere avuto particolari movimenti. Forse Fausto Filippone le aveva somministrato un sonnifero. Il papà, dunque, aveva spento nella propria figlioletta perfino la possibilità di guardare, di ascoltare, di porgere la manina. Poi l’ha buttata giù. Dopo averla buttata si è aggrappato lui all’esterno della recinzione dell’autostrada e ha gridato a chi stava sotto il cavalcavia di non avvicinarsi al corpicino senza vita di Ludovica perché, altrimenti, si sarebbe buttato anche lui. Tutto obbedisce a una strana, drammatica coerenza. Fausto Filippone aveva spento quello che restava delle sue relazioni, gettando, forse, la moglie dal balcone, gettando giù dal cavalcavia la figlioletta. Infine ha negato anche l’ultima pietosa relazione: il soccorso a una bambina che era già morta. Ha deciso che la bambina andava lasciata nella sua morte dove lui l’aveva buttata.

Tutto il dramma potrebbe essere descritto come la spettacolare messa in scena di una impressionante vertigine del vuoto: il vuoto delle relazioni che non c’erano e il vuoto del balcone, il vuoto del cavalcavia in cui ha gettato la figlia, il vuoto del cavalcavia in cui si è gettato lui.

Di fronte a questa vertigine esiste il rischio che l’opinione pubblica, spaventata per quello che è successo, faccia a sua volta il vuoto e cerchi di girare la faccia dall’altra parte. Ma non si può, perché il dramma di Villafranca, in fondo, dice ad alta voce i tanti piccoli drammi che avvengono ovunque e quella tragica solitudine fa pensare a tante piccole, numerose solitudini che sono dappertutto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA