Umanità e sicurezza
Difficile equilibrio

L’Africa, ci ricorda Enrico Letta da Parigi, sarà il grande tema dei prossimi 10 anni, essendo l’unico continente che raddoppia gli abitanti, più giovane e numeroso. Un recente rapporto dell’Unicef dice che ogni anno, nella fascia centrale e occidentale del continente nero, migrano 12 milioni di persone: il 75% resta nell’area subsahariana e meno di una su 5 si dirige verso l’Europa. Se ne deduce che, pur tranquillizzando i benpensanti, è interesse vitale dell’Italia stabilizzare la Libia sul piano politico ed economico, andando oltre la stessa gestione dei flussi migratori.

Al di là del plauso internazionale che, dopo il vertice di Parigi, ci siamo guadagnati per il governo di una umanità in fuga. Un primo passo importante, è stato detto a ragione, per coinvolgere anche i Paesi della filiera come il Niger, pure nel loro interesse, perché possano riprendere il controllo di quel che passa sui loro territori attraverso confini porosi. In sostanza è stata «europeizzata» l’azione italiana, avanguardia spesso isolata. Comincia a vedersi una nuova politica africana dell’Italia e dell’Europa, spostando l’asse dalla sola reazione umanitaria a quella geostrategica e trasferendo i confini del Vecchio continente a Sud. Nella convinzione che la nostra sicurezza è la loro e che parte della soluzione sta nella connessione di interessi tra Africa ed Europa.

Qualche domanda, però, rimane in sospeso e c’è sempre il sospetto che un po’ di polvere venga nascosta sotto il tappeto. Il primo a rendersene conto, proprio perché titolare di una politica con i piedi per terra, è stato Gentiloni quando ha affermato che bisogna tenere assieme prospettiva di lungo periodo e azioni per l’immediato: «Abbiamo dato un segnale di successo, ma che può essere fragile». In una situazione complicata, dal gioco duro, il realismo diplomatico che per necessità non bada all’estetica ha replicato in Libia il modello tedesco applicato alla Turchia che ha bloccato la rotta balcanica: un investimento per lo sviluppo e per trattenere i profughi. Per chiudere la via libica servirebbe la cifra (6 miliardi di euro) destinata a Erdogan. Mentre si apre la falla spagnola, c’è l’urgenza di arginare l’emorragia libica prima che il fronte del Mediterraneo orientale (alla vigilia del referendum sul Kurdistan iracheno) torni a incendiarsi. Sarà importante controllare a chi vanno i soldi europei in Libia e come verranno spesi, perché lo «scatolone di sabbia» resta ancora un non Stato, per quanto la situazione sia un po’ migliorata. La sostituzione di un’economia criminale dedita al traffico di esseri umani, e fin qui l’attività più redditizia e in competizione con l’indotto dell’export di petrolio e gas, con un’economia legale richiede interlocutori istituzionali affidabili e identificabili. Denaro pulito in cambio di quello sporco, là dove le cronache raccontano che i trafficanti di ieri, ma con immutata violenza, si stanno riciclando in miliziani «anti traffico».

Trovare un ragionevole equilibrio fra umanità e legalità è una questione di civiltà giuridica: la prima impressione, e in attesa di smentite, è che il tema dei diritti umani non abbia avuto un’adeguata attenzione al vertice di Parigi. O quanto meno che l’impatto sull’opinione pubblica sia stato questo, tutto giocato sulla sicurezza. Il prezzo lo pagano i profughi che escono dal radar dell’opinione pubblica per entrare nei campi d’internamento libici assai lontani da una minima decenza di rispetto umano. Privi di qualsiasi tutela giuridica in un Paese dominato dall’insicurezza, tanto più che la Libia di oggi, come quella di Gheddafi, non riconosce la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, per cui tutti i profughi sono irregolari.

Il problema, dunque, sarebbe risolto, perché queste persone diventano invisibili secondo la logica «occhio non vede, cuore non duole». Difficile, dal nostro punto di vista, non condividere il giudizio critico di personalità come Emma Bonino e Massimo Cacciari, che hanno ammonito sui rischi di un rovesciamento della scala di valori: la tragedia vera è quella di quei poveretti, che dopo aver rischiato in mare vengono ricacciati nei lager della Libia. Diritti umani come grandi assenti, visto che la diminuzione dei flussi colpisce nello stesso modo i titolari del diritto d’asilo e i migranti economici. Ci si chiede, poi, se la datata distinzione teorica fra queste due categorie sia ancora possibile, un concetto che diventa astratto. E soprattutto se corrisponda al mondo reale di un continente africano piagato da ricorrenti carestie, vuoti istituzionali, dittature di ogni risma e guerre civili (negli ultimi 20 anni ci sono stati 25 grandi conflitti nella regione). In una politica internazionale che sta smarrendo il riferimento ai diritti umani, il pericolo dietro l’angolo è che anche le buone intenzioni possano trasformarsi in una micidiale trappola per la stessa umanità alla deriva che si vuole proteggere.

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