Un anno per fare
i conti con la storia

Il 2018 sembra confezionato sulla prospettiva indicata dal presidente Mattarella che, nel discorso di fine anno, ha detto che la democrazia «vive di impegno nel presente ma si alimenta di memoria e di visione del futuro». Il voto di marzo, per quanto possa rappresentare uno spartiacque, non esaurisce l’immaginario collettivo: la vita continua. Anzi, possiamo leggere l’Italia che uscirà dalle urne all’interno di un percorso storico in cui il Paese, nonostante tutto, è maturato, è diventato adulto insieme con le altre democrazie

europee. La memoria come cura del presente per organizzare il futuro, sapendo che il consenso non è una cena di gala. Un’Italia che riesce a dare il meglio di sé quando si sente ferita e sfidata: è successo nella lotta al terrorismo, a quell’attacco al cuore dello Stato che, 40 anni fa nel 1978, ha toccato il punto estremo con il rapimento e l’assassinio dello statista democristiano Aldo Moro.

A cent’anni dalla fine della Prima guerra mondiale, il capo dello Stato ha ricordato i «ragazzi del ’99», cioè i diciottenni di allora che andarono a morire nelle trincee, per sottolineare come i coetanei di oggi possano essere protagonisti della vita democratica semplicemente con l’esordio del loro voto. Per uscire dalla trappola del presente serve riavvolgere il nastro della memoria per ricordare da che mondo veniamo.

Il 2018 pare costruito apposta: l’anno degli anniversari «pieni» che, per una regola non scritta del giornalismo, rappresentano un codice canonico delle ricorrenze pubbliche. Rivedremo, con la battaglia di Vittorio Veneto, il centenario della Vittoria, ma anche la carneficina di una generazione, il primo conflitto di massa, la fine dell’Europa felix, la marcia verso la distruzione di autocrati che si movevano come sonnambuli, l’identificazione delle avanguardie con la violenza totale, il culto dell’annientamento dell‘avversario. L’Italia dalle fragili istituzioni liberali vince la guerra, ma perde la pace: il biennio rosso e poi quello nero, almeno come sequenza temporale, aprono la strada al fascismo. Il vecchio continente patirà sulla propria pelle l’infausta decisione di punire e umiliare i vinti, mentre ancora oggi, dando uno sguardo ai nuovi confini dell’Europa spostati a sud del Mediterraneo, constatiamo l’illusione di aver ridisegnato a tavolino il destino di popoli al guinzaglio. Per capire i tormenti dell’uomo contemporaneo che vive con la pancia piena in democrazie insoddisfatte e per andare alle radici dei tanti incendi attorno a noi, dobbiamo rileggere il «come eravamo». L’irruzione delle masse, la modernizzazione, l’autodeterminazione dei popoli sono tornanti traumatici. Ne siamo usciti dopo altri lutti e una Seconda guerra mondiale, archiviando quella temperie ideologica con gli strumenti di un faticoso pluralismo e con una Costituzione che, 70 anni dopo, sul piano dei principi ha ancora molto da insegnarci.

Con la Storia bisogna fare i conti. Cinquant’anni fa scoppiava il gran falò della contestazione nel mondo occidentale, partito dalle università e sull’onda della rivolta a Berkeley del ‘64: ricordate il Sessantotto? Parigi brucia nel Maggio francese, De Gaulle chiama a raccolta la maggioranza silenziosa, in Italia la rivolta libertaria contro i padri, l’«immaginazione al potere», rimescola le carte e la gerarchia di un Paese che incontra la grande migrazione dal Sud, il boom economico con le sue disuguaglianze e la seduzione del consumismo, l’operaio-massa che vede entrare la Costituzione in fabbrica con lo Statuto dei lavoratori. L’Europa democratica si concede il lusso di un eccesso di libertà, dello sberleffo verso il potere costituito, esercizi impraticabili in quella plumbea e satellizzata da Mosca: sempre nel ’68, la Primavera di Praga, con il riformismo di Dubcek, è soffocata nel sangue dai tank sovietici. Oggi l’America aggressiva di Trump non ci piace nel suo essere variabile indipendente, ma dobbiamo ricordarci anche del prezzo pagato dalla miglior America: quella che aveva il volto di Martin Luther King e di Bob Kennedy, assassinati mezzo secolo fa. Un’America impaurita, mentre iniziava l’escalation della guerra in Vietnam, tanto che l’illustre storico Schlesinger scriveva che «eravamo il popolo più spaventato del pianeta».

Umori dominanti che sembrano quelli di oggi, un po’ di tutti. Anche noi italiani possiamo recuperare brandelli di storia patria e ricomporli in un’educazione civile che abbia dalla sua le ragioni di un futuro frequentabile da tutti.

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