Unioni civili, la doppia
cittadinanza dei credenti

«Ho giurato sulla Costituzione e non sul Vangelo». Parola di Matteo Renzi a proposito della legge sulle unioni civili. Lo ha detto a «Porta a porta». Perfetto. Si tratta di una di quelle frasi che non ammettono repliche. Su che cosa deve giurare il capo del governo, infatti? Ovviamente sulla Costituzione. Ma quando una cosa ovvia viene enfaticamente affermata vuol dire che non è poi così ovvia o per chi la dice o per chi la ascolta o per tutti e due.

Vorrei allora tentare di capire perché l’affermazione di Renzi non è ovvia, cercando di definire lo stato d’animo di un credente medio di fronte all’evento legislativo di questi giorni. Come credente medio intendo dire uno che accetta non come una catastrofe, ma come valore determinante della società moderna, la laicità. Il credente medio sa che «le coppie di fatto sono un fatto» e quindi bisogna riconoscerle con una legge. Bene. Ma lo stesso credente sa che la cultura ispirata dalla sua fede non coincide con quella che viene fuori da questa legge. La coppia eterosessuale e quella omosessuale non sono la stessa cosa. Per cui, da una parte, quel credente riconosce come positivo il riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto, ma lui credente non può condividere e, inoltre, vede con una certa ansia la possibilità che il riconoscimento di fatto possa portare una equiparazione delle coppie omosessuali e che si possa arrivare a un matrimonio omosessuale come di fatto avviene già in molti Paesi dell’Occidente.

Lo stato d’animo del credente, quindi, è l’accettazione onesta di una visione che non è esattamente quella della sua fede. Onesta, non allegra. In altre parole, il credente mi pare che dovrebbe dire le due cose: va bene la legge, ma non è proprio quello che vorrei. Anche in questo caso i credenti si sentono dentro e addosso la doppia cittadinanza. «Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è̀ patria loro, e ogni patria è̀ straniera»: così la citatissima «Lettera a Diogneto», documento dell’antichità cristiana, seconda metà del secondo secolo.

Questo, mi sembra dovrebbe essere lo stato d’animo del credente. Ma non sembra essere esattamente quello di Renzi. Certo non si può chiedere a Renzi di fare quello che fece il re del Belgio Baldovino che, all’inizio degli anni ’90, rinunciò per qualche giorno all’esercizio del suo potere per non dover firmare la legge sull’aborto. I tempi sono diversi e le situazioni anche. Ma, in ogni caso, in un credente, il contrasto fra quello che vota in Parlamento e quello che crede in Chiesa dovrebbe, in qualche modo, venir fuori. La frase di Renzi, in altre parole, appare eccessivamente semplificatrice e sembra ridurre tutto a una negazione: la fede non ha nulla da dire a questa legge. Si ha sensazione di trovarsi di fronte a una riedizione di quell’atteggiamento molto diffuso che colloca la fede da una parte e la morale dall’altra. Vado in chiesa, prego, ma poi decido io cosa fare nella mia vita privata e in quella pubblica. E poco importa che quello che decido sia in contrasto con quello che credo. Che sia un atteggiamento diffuso, d’accordo. Ma è ovvio che un credente si sente di esprimere quanto meno qualche perplessità.

Intanto, di fronte alla posizione del governo, parte l’iniziativa della destra alla quale si uniscono esponenti del mondo cattolico, in particolare gli animatori del «Family day», che intendono far partire un referendum abrogativo. Che la destra lo faccia, affari suoi. Che lo facciano i cattolici bisogna pensarci e bene perché l’iniziativa rischia di essere controproducente. È successo già altre volte: si fa politica in nome della fede con le migliori intenzioni del mondo, ma si rischia, spesso, concentrati su una legge da difendere o da abrogare, di far coincidere un successo politico con il trionfo della fede. Le due cose possono anche andare insieme, qualche volta. Ma non coincidono, quasi mai.

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