Usa, la donna giustiziata
un triste primato

La condanna a morte di Lisa Montgomery eseguita ieri alle 7,31 ora italiana nel carcere di Terre Haute, in Indiana, assomma una serie molto triste di primati. È la prima condanna che manda al patibolo una donna per una sentenza federale da 67 anni a questa parte. Con lei sono 11 le persone che hanno pagato questa scelta di Trump di interrompere nel luglio 2019 una moratoria che durava da 16 anni. Così mentre a livello degli Stati federati le condanne sono calate (sette nel 2020), a livello centrale si è registrata una netta recrudescenza. Infine un altro triste primato: erano 130 anni che la massima pena veniva sospesa nel periodo di transizione tra un presidente e l’altro.

Ci voleva Trump per interrompere anche questa consuetudine istituzionale. Uno sgarbo palese al neo presidente Joe Biden che nel suo programma ha proprio incluso l’abolizione della pena di morte federale. Va anche ricordato che gli Stati Uniti sono l’unico Paese occidentale in cui è ancora prevista la pena capitale.

La Costituzione Usa prevede che Washington possa scavalcare gli Stati per comminare la massima pena nei casi di alto tradimento, spionaggio e omicidio aggravato: la vicenda di Lisa Montgomery rientrerebbe in quest’ultimo caso. Ma è proprio su questo punto che sono stati sollevati tanti legittimi dubbi. La storia di Lisa è una storia drammatica di abusi subiti quando era ragazzina da parte del patrigno. Aveva solo 11 anni quando il compagno alcolizzato della madre ha iniziato a violentarla e a tenerla prigioniera in isolamento per quattro anni, invitando talvolta i suoi amici a violenze di gruppo. La madre stessa la obbligava a prostituirsi per pagare le spese della casa. Nel 2004 Lisa era stata protagonista di un omicidio efferato: aveva ucciso la 23enne Bobbie Jo Stinnett, incinta di otto mesi, tagliando il grembo per portar via la neonata spacciandola per sua figlia. Ma come ha affermato Sandra Babcock, fondatrice e direttrice del «Cornell center on the death penalty worldwide» e consulente del team legale della Montgomery, «Lisa non è la peggiore tra i peggiori assassini. È la più distrutta tra le persone distrutte». Per questo gli avvocati della difesa avevano chiesto di riconoscere l’infermità mentale della donna, alla quale in carcere era stato diagnosticato un disturbo bipolare.

Ma non c’è stato niente da fare: dopo una serie «di allucinanti decisioni le une contro le altre», come ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, l’amministrazione Trump ha voluto dare un ultimo segnale che suona un po’ come un tentativo di fomentare divisioni e di disseminare veleni nel Paese che lo ha appena scalzato dalla Casa Bianca. Purtroppo il caso di Lisa Montgomery non è l’unico nel quale evidenti problemi psichiatrici, non sono serviti a fermare la mano del boia. Come ha ricostruito il sito Valigia blu, «tutti i detenuti messi a morte nel 2020 avevano 21 anni, se non meno, quando hanno commesso il reato per il quale sono stati condannati alla pena capitale e uno o più problemi relativi a malattie mentali, lesioni cerebrali, danni cerebrali dello sviluppo o ritardo mentale, gravi traumi infantili, abbandono e/o abusi».

Quella voluta da Trump è un’estremizzazione che si spera costringa un grande Paese come gli Stati Uniti ad un esame di coscienza. Tanto più che, come ha documentato Amnesty International, nel mondo il numero delle condanne a morte è per fortuna in calo e i dati del 2019 sono i più bassi degli ultimi 10 anni.

A tutto questo va aggiunta la svolta impressa da Papa Francesco, che nel 2018 ha cambiato un paragrafo del Catechismo per affermare l’assoluta inammissibilità, senza nessuna eccezione, della pena di morte (prima veniva giustificata qualora fosse «l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani»). Un buon obiettivo di programma per il cattolico Joe Biden.

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