Veronica, un dramma
con tanti colpevoli

Se Veronica Panarello sia o meno l’assassino del piccolo Loris lo stabilirà la giustizia al termine del lungo percorso che solo l’altra sera ha iniziato a muovere i primi passi. Al contrario, i processi sommari che in queste ore riempiono le pagine dei giornali e le trasmissioni di molte televisioni assolvono solamente alla funzione che gli antichi romani, nella loro «naturale» barbarie, lasciavano all’anfiteatro Flavio - il Colosseo -, dove schiavi e diseredati dalla sorte venivano dati in pasto alle belve.

Oggi l’arena è diversa, ma la voglia di veder scorrere il sangue è sostanzialmente la stessa, confermando - se mai ce ne fosse ancora bisogno - l’angosciante attualità di uno tra i più celebri versi di Salvatore Quasimodo - «Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo» -, scritto quasi settant’anni fa.

Uccidere il proprio figlio è quanto di più innaturale ci possa essere, ma una piccola «lezione» sull’atteggiamento da tenere di fronte a questa terribile vicenda - chi di noi è davvero in grado di giudicarla? - viene direttamente dal carcere dov’è rinchiusa la donna: se i detenuti della sezione maschile le hanno gridato «assassina», con urla che si sono sentite anche fuori dalle mura della casa circondariale, le detenute della sezione femminile non hanno avuto alcuna reazione di protesta nei confronti della donna, «accogliendola» con la consapevolezza che la gravità delle accuse mossele siano già di per sé un peso troppo grande per aggiungere dolore a dolore, disperazione a disperazione.

Chiedersi il «perchè» di questa assurda vicenda è legittimo, è umano, ma una risposta non la si troverà mai, nemmeno tra le migliaia di fogli che comporranno i faldoni del processo. Disperazione? Follia? Certamente si, ma sono sufficienti queste due semplici parole per «chiudere» il caso?

In attesa di una giustizia «giusta» - scevra da qualsiasi ombra di vendetta - il caso di Veronica Panarello non riporta alla ribalta delle cronache solo quanto possa essere devastante la fragilità umana, ma anche quanto poco si fa, nel nostro Paese, per arginare concretamente questa «forza», per aiutare davvero chi non riesce a portare sulle proprie spalle il peso di una vita difficile, quasi impossibile da vivere di fronte alle tante «cattiverie» che giorno dopo giorno sembrano affastellarsi una sul l’altra. Quello della malattia psichica resta, in Italia, uno dei problemi più gravi ai quali non si è mai riusciti a dare una risposta compiuta.

Da anni, la psichiatria italiana è considerata la «Cenerentola» dell’assistenza socio-sanitaria, per sottolineare la scarsa considerazione che il «sistema» ha di lei e dei suoi problemi, ma è un «nomignolo» riduttivo. Magari la psichiatria in Italia fosse ai livelli di Cenerentola, perché - seppure tardivamente, dopo mille patemi e umiliazioni - alla fine sarebbe pur sempre trattata come una principessa, servita, riverita e, soprattutto, amata.

Qui, invece, di scarpette di cristallo e di prìncipi azzurri non ce ne sono proprio: solo tante sorellastre sempre pronte a rinchiuderla in cima alla torre per impedire che qualcuno la porti finalmente a corte. Per la psichiatria italiana, infatti, il «sistema» prevede solo di «sgobbare» freneticamente da mattina a sera, senza nessuna speranza di vedersi riconoscere qualcosa in più per ampliare gli organici di medici e infermieri e per aumentare i posti letto negli ospedali o nelle comunità residenziali. Anziché fatine che trasformano zucche in carrozze, nella storia della psichiatria italiana (parlare di fiaba è inopportuno) c’è tanta ingiustizia, c’è un «folle» oblio che ha mandato nel dimenticatoio le promesse fatte ciclicamente ai malati e alle loro famiglie, alimentando speranze poi puntualmente disilluse.

Specchio dei tempi di una società malata essa stessa di schizofrenia, ma, come sempre avviene in questi casi, incapace di riconoscersi tale, e, dunque, di chiedere aiuto, di cominciare a curarsi. Oggi, in mezzo a uno stigma della malattia mai venuto meno, cercare di avere risposte certe e rapide è davvero pura utopia: il «calvario» dei malati e delle loro famiglie si è ulteriormente appesantito, attorcigliato e aggrovigliato in mille disagi, in mille difficoltà, in mille contraddizioni. Se la civiltà del nostro Paese la si dovesse misurare sul grado di attenzione che dedica al dramma dei malati psichiatrici, l’Italia apparterrebbe al Terzo Mondo. La verità è che mentre la scienza si è liberata del ghetto, la nostra società considera gli «ultimi» - i malati, i poveri, i derelitti - un qualcosa (nemmeno un qualcuno) da nascondere. Da ghettizzare. E ancora una volta il verso di Quasimodo mantiene intatto il suo valore profetico: «Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo...».

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