Affezionati ai debiti

La frase del momento è rinegoziare il debito. L’altra sera ho tentato di rinegoziare il conto in un ristorante greco, ma è andata buca. Altri ci riescono, per esempio il ministro Varoufakis, prezzemolone freak del governo Tsipras, che ha ottenuto nuovi aiuti da parte dell’Europa con l’assenso a larga maggioranza (ieri al Bundestag) persino dei tedeschi.

L’avevamo scritto un paio di settimane fa, l’aria sta cambiando e il rigore fine a se stesso non sembra - per fortuna - essere più di moda. Lo conferma l’Istat, che nel primo trimestre vede crescere il Pil dello 0,1%. Meno di così è impossibile, ma da tre anni e mezzo non avevamo il segno meno davanti. Dorme lo spread, che imparammo a conoscere nel novembre 2011 quando era a 575, oltre la soglia del fallimento dello Stato. Ieri il numero che indica in teoria il rapporto fra titoli pubblici tedeschi e italiani, ma che in pratica fotografa il grado di nervosismo dei mercati è sceso sotto la soglia psicologica dei cento punti. Non accadeva da cinque anni, per gli investitori l’Italia è tornata un luogo affidabile.

Proprio in questo contesto ci sembra doveroso ricordare che lo Stato è ancora inadempiente. Lì, le lacune sono ancora enormi e la spending review è tornata nei cassetti da dov’era venuta nella stagione della grande paura. La spesa di previsione 2015 della Camera sfiora il miliardo (985 milioni) e quella del pur declinante Senato arriva ai 540 milioni. La politica e la tentacolare burocrazia che la sorregge hanno risparmiato meno del 5%. Il debito pubblico italiano vola (133% del pil), ma a nessuno viene in mente di rinegoziarlo. E tantomeno di ridurlo.

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