Fame o appetito?

Fra grandi cuochi, prodotti tipici, Oscar Farinetti, corsi da birraio (padiglione Repubblica Ceca) e apericena prolungato fino a mezzanotte, l’Expo milanese è partita alla grande ma non è ancora riuscita a far emergere il senso più intimo del suo esistere: nutrire il pianeta. Vale a dire occuparsi di chi non ha nulla da mangiare, non di chi ha sempre appetito e dovrebbe stare a dieta.

Le due situazioni sono radicalmente opposte e siamo sicuri che il confronto di idee e di progetti per offrire ai popoli indigenti un po’ di energia per la vita prima o poi prenderà il sopravvento sulle bistecche marinate nella birra e i dessert con le mandorle caramellate. La sottolineatura è un po’ no global e la frugalità bio-chic risulta urticante almeno quanto l’effetto da gran ristorante. Messi a fuoco i due eccessi, resta il tema. Il premio Nobel Amartya Sen, dalla sua cattedra di Harvard l’ha detto chiaro e tondo: «All’Expo sarebbe meglio parlare di fame piuttosto che di cibo. Expo dovrebbe riconoscere e individuare bene il problema della fame, discutere di politica ed economia, influenzare le altre nazioni».

E allora perché non si fa, o almeno non ancora? Perché una sottile ipocrisia pervade questo inizio e nessuno vuole turbare i sonni di Vandana Shiva, testimonial dell’esposizione, evocando la parolina magica: ogm. Innovazioni in agricoltura, nuove varietà come il golden rice indiano, ricerche che in Cina sono avanzatissime per far fronte alle richieste di un miliardo e mezzo di persone. Anche Usa, Argentina, Brasile, Russia partecipano alla partita. Opportunità e rischi. Una realtà che va discussa e della quale tenere conto nel 2015. Non possiamo pensare che Expo ignori la faccenda. A meno che non ci si illuda che il nostro orto biologico a km zero possa sfamare tutti.

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