Il sorriso di Valeria

«Ho capito che mia figlia era morta la prima notte quando siamo andati a dormire. Anzi, che dico a dormire, quando abbiamo spento la luce».

Chissà se il papà di Valeria Solesin ha letto «Il cavallo rosso» di Eugenio Corti con l’immagine tenera e definitiva della madre di Stefano che sente un soffio di vento oltre la finestra e capisce che suo figlio, laggiù nelle pianure innevate del Don, in quell’istante è morto. C’è qualcosa di epico nella dolcezza di Alberto Solesin, qualcosa che somiglia tanto al sorriso di sua figlia nella foto che per noi italiani rimarrà il simbolo più riconoscibile del massacro di Parigi. È consapevole di essere entrato nel giardino del Dolore (oggi ci sono i funerali), ma non vuole farsi travolgere dal rancore, dall’odio. Sa che se lo facesse, il sorriso di Valeria avrebbe un significato diverso, distorto, addirittura contrario a ciò che amava.

La libertà, la curiosità, l’amicizia, la solidarietà. E allora Alberto ci prova, avverte il calore di un intero Paese attorno a sé e alla moglie Luciana (che non parla non perché non vuole, ma perché non riesce) e ci trasmette con disarmante spontaneità sensazioni di unione e non di divisione. Sono giornate frastornate, piene di gente sconosciuta che affolla lo sguardo e la memoria. Ma poi arriva il momento di spegnere la luce e papà Alberto sa cosa significa. «Quando mi capita di pensare a cosa ho perso, il cuore mi si chiude e mi prende la commozione». Aveva 28 anni, studiava all’estero, era felice di andare a quel concerto al Bataclan. E sorrideva. Il suo papà vuole ricordarla così per sempre. Dobbiamo aiutarlo.

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