Iniquo canone

È l’eterno ritorno del sempre uguale. Le case sono altre, ma il problema è sempre lo stesso: Affittopoli. Il termine fu coniato nell’agosto del 1995 nella redazione de Il Giornale, che scatenò un’inchiesta per smascherare politici, uomini delle istituzioni e grandi manager che vivevano in palazzi di proprietà dello Stato pagando canoni imbarazzanti. Massimo D’Alema diventò il simbolo di quello scoop: una casa a Trastevere a 633 mila lire al mese. Pressato dall’opinione pubblica, l’allora segretario del Pds si arrese e traslocò annunciandolo in Tv da Maurizio Costanzo.

Vent’anni dopo, come direbbe Alexandre Dumas padre, non è cambiato niente. Lo dimostra il fatto che ieri il commissario straordinario di Roma, Francesco Paolo Tronca, ha scoperto che il Comune perde cento milioni l’anno per affitti non pagati o pagati cifre irrisorie. E se il canone molto leggero è del tutto comprensibile per appartamenti in zone disagiate o per nobili motivi sociali, diventa scandaloso se è frutto di sciatteria amministrativa o della formula molto italiana «sei amico degli amici». I casi venuti alla luce sono 574, Tronca sembra voler andare fino in fondo anche perché l’amministrazione della capitale è in perenne deficit e solo un anno fa ha ottenuto un finanziamento a fondo perduto di 500 milioni dal governo.

«Dobbiamo fare in fretta e dare un segnale molto forte», spiega il commissario, preoccupato da un evento all’orizzonte: le elezioni. Come a dire che, una volta tornata nelle mani dei politici, la pratica potrebbe finire come molte altre. In soffitta, a iniquo canone.

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