Occupy liceo

Quando si parla di modernariato c’è chi pensa ai juke box e chi alla Topolino giardinetta, ma anche le occupazioni studentesche entrano a buon diritto nella categoria.

È da quarant’anni che ne sentiamo parlare, soprattutto dall’Immacolata all’inizio delle vacanze di Natale. E quando la Tv ci costruisce sopra un servizio sembra di tornare a Woodstock. Quello dell’occupazione è un rito stanco, fuori dal tempo, che si tramanda di padre in figlio come una canna da pesca. Quest’anno è stato messo in scena con successo soltanto al liceo classico Virgilio di Roma, che tradizionalmente ospita la pièce: 14 giorni di occupazione, banchi e cattedre per le scale, tazebao e assemblee, la preside sbertucciata, genitori divisi fra buonisti e imbarazzati, studenti che volevano studiare allontanati a male parole.

Perché tutto questo? Gli occupanti lo spiegano in alcuni punti. Si parte dal no alla Buona scuola, poi c’è la richiesta di un’aula autogestita per gli «spazi autonomi», il bar aperto un quarto d’ora prima della campanella per fare colazione, più posti per i motorini sul Lungotevere, il comitato studentesco deve tornare ad essere un organo decisionale e non solo consultivo, nessuno studente deve essere punito per l’occupazione, non si cancellino le opere di street art, devono essere rinnovate le palestre e dev’essere tolta la telecamera sul cortile, messa l’anno scorso dopo che alcuni studenti-pusher vendevano droga agli altri. La faccenda è praticamente risolta, il sottosegretario Faraone ha ascoltato i ragazzi e li ha convinti a desistere con la frase: «Anche io ho occupato la mia scuola, è stata una esperienza per me formativa». L’anno prossimo, stessi giorni e stesse ore, si replica.

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