Sessanta sottozero

Oggi vogliamo fermare una notizia ancora un po’, aspettare prima di lasciarla scivolare via nel grande fiume delle parole perdute. Oggi viene così, abbiamo desiderio di ricordare un ragazzo senza nome che sognava l’Europa, un futuro, una vita dignitosa.

C’è ancora, nel mondo, chi ritiene straordinari degli orizzonti per noi scontati. Quel ragazzo, con un suo amico, era riuscito a infilarsi nel vano del carrello di un aereo di linea della British Airways in partenza da Johannesburg, destinazione Londra. Non chiedetemi come ha fatto, non sarei capace di saltare una fila alla cassa del supermercato, ma la necessità aguzza l’ingegno. Un viaggio di ottomila miglia, 12 ore di volo, a 60 sottozero, senza pressurizzazione.

Forse si parla poco in quelle condizioni, forse no. Certo in modo diverso che in un bivacco western. Ci si guarda negli occhi, si condividono paure e speranze dei 25, 30 anni. E come scriverebbe un cattivo paroliere «si bussa alle porte dell’inferno». Altro che heaven’s door. Due ragazzi disposti a rischiare tutto, e più di tutto la vita. Questo e solo questo misura la loro disperazione. Poi accade che a pochi minuti dall’atterraggio uno di loro non ce la fa più, e precipita da quel buco di lamiera morendo su un tetto del quartiere di Richmond, mentre Londra è lì davanti. L’altro arriva in fondo al viaggio, però è in fin di vita all’ospedale.

Tecnicamente sono clandestini, ma se riescono anche solo a immaginare un simile trasbordo significa che la dimensione del sogno è l’unica alla quale ormai si aggrappano. E che la loro determinazione è totale, senza alternativa. La sensazione è che possiamo solo aiutarli e costringere i nostri governi a farlo con intelligenza e pietà. Non riusciremo mai a fermarli.

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