Telecamere

I processi mediatici sono sinonimo di forzatura, di mancanza di rispetto. Non hanno un perimetro, nel senso che non si sa dove finisce il diritto di cronaca e dove cominciano loro, ma hanno una conseguenza diretta: l’audience del programma televisivo che si trasforma in aula di tribunale.

Questo perché il processo mediatico ha un’altra caratteristica identificante: è innanzitutto televisivo. Si comincia con Cogne e il plastico della casa del delitto da Bruno Vespa, si prosegue con la strage di Erba, l’omicidio di Avetrana, il caso Meredith, la vicenda Stasi. La cronaca nera calamita l’attenzione del pubblico, i talk show dedicati funzionano benissimo (a differenza di quelli a sfondo politico) e in pochi si pongono il problema di salvaguardare la dignità degli accusati, spesso fatti a brandelli da criminologi, sociologi o anche solo soubrette in prima serata.

Va da sè che il processo mediatico, per funzionare, abbia bisogno di immagini. Un articolo di giornale colpevolista o innocentista può suscitare condivisioni o dissensi più o meno vibranti, ma concede a chi lo legge il tempo della riflessione. Un video colpisce allo stomaco. Soprattutto se è quello dell’arresto di Massimo Bossetti nel cantiere, con fotogrammi crudi, psicologicamente violenti . Certe immagini non vengono alla luce per partenogenesi dentro le redazioni, ma arrivano da chi coordina le indagini. Il processo mediatico nasce dove nasce quello giudiziario: nelle procure. Per farla breve, l’autorità giudiziaria che ha dato via libera al video abita con quella che ha negato alle telecamere le riprese del processo vero. Sfugge il senso.

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