Vespa a Corleone

«Io non sono equidistante, sono equivicino». È una delle frasi preferite da Bruno Vespa, campione da un quarto di secolo del surf televisivo sulle onde dell’audience e dell’ecumenismo politico.

Significa amico di tutti, impareggiabile galleggiante del sistema pubblico, che nella Prima repubblica definiva la Dc «azionista di riferimento» e oggi ha passato il ruolo al Pd. Il problema è che non è possibile essere equivicino alla figlia di Giovanni Falcone e al tempo stesso al figlio di Totò Riina, invitato a Porta a Porta ed entrato a 32 pollici nelle case di qualche milione di italiani (motivo primario della messa in onda). Il problema non è Salvo Riina che dice «Amo mio padre e non sono io a doverlo giudicare», ma è lo spettacolo per nulla educativo di un campione del giornalismo televisivo che vorrebbe far conoscere la mafia mostrandone il volto più sdoganabile, perfino più umano.

È vero che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma che almeno i parenti degli assassini non diventino delle star. Così, dopo la passerella del clan Casamonica, ecco Riina junior. come se la mafia fosse un altro modo di intendere il focolare. Niente di più, niente di peggio. E questo è un errore di prospettiva clamoroso, perché il sangue rimane sullo sfondo, anzi scompare proprio. Nessuno ebbe nulla da ridire quando Enzo Biagi intervistò Luciano Liggio o quando Lino Jannuzzi duettò con Michele Greco detto ’U Papa. Avevano davanti la mafia, le chiedevano conto delle vergogne e dei lutti. Uno dei motti preferiti dei direttori di giornale è: se vai all’inferno e mi porti l’intervista al diavolo te la pubblico. Al diavolo, non a Geppo.

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