Vite rubate

Un giorno arrivò una querela. Roba corrente per un giornale in questi tempi di crisi economica in cui si moltiplicano le richieste più stravaganti di danni. Avevamo pubblicato una fotografia nella quale si intravedeva la targa indecifrabile di un’auto.

Un giorno arrivò una querela. Roba corrente per un giornale in questi tempi di crisi economica in cui si moltiplicano le richieste più stravaganti di danni. Avevamo pubblicato una fotografia nella quale si intravedeva la targa indecifrabile di un’auto.

La vettura aveva provocato un incidente rocambolesco a causa del quale l’autostrada era rimasta bloccata per tre ore con 15 chilometri di coda. Il querelante era il conducente, che ci imputava un deficit di privacy nei suoi confronti, del tutto disinteressato al diritto di cronaca per un fatto avvenuto in luogo pubblico e di indubbio interesse pubblico.

Il curioso procedimento fu istruito per la felicità del suo avvocato, poi un giudice archiviò. Quell’episodio ci è tornato in mente leggendo della class action nei confronti di Facebook da parte di 25000 iscritti europei che svegliandosi un mattino da torpore millenario hanno scoperto come i loro dati siano tutt’altro che privati.

Anzi diventino, senza permesso, serbatoio di notizie per aziende, società di pubblicità e chissà chi altro. Del resto, mentre Zuckerberg conosce i nostri amici, noi non conosciamo i suoi. Il capofila dell’azione è un giovane avvocato di Vienna, Max Schrems, che in base al diritto d’accesso alle banche dati previsto dalle leggi europee (Facebook per pagare meno tasse ha i server a Dublino) ha chiesto la stampata dei suoi.

Gli è arrivato a casa un dossier di 1.200 pagine come se fosse Bin Laden, con le conversazioni, le foto, i messaggi che pensava di avere cancellato. Da qui l’indignazione e l’azione legale che un tribunale serio dovrebbe accettare. Sempre che una schedatura in piena regola valga più di un’ipotesi di targa in basso a sinistra.

© RIPRODUZIONE RISERVATA