I social network?
Posto per missionari

I social network sono «buoni» o «cattivi»? C’è chi li snobba: «Solo stupidaggini». E chi se ne tiene alla larga: «Sono per i ficcanaso».

Chi invece è entusiasta: «Ci trovo di tutto». Molti ormai leggono le bacheche invece dei giornali. Uno dei motivi è sicuramente la forte componente di interattività che queste “piazze virtuali” consentono, e la semplicità con la quale possono essere condotte le interazioni: commenti, like e condivisioni. Anche se il tono degli interventi, delle note e dei post spesso non invoglia: «Pieni di livore, negativi, a volte diffamatori».

La verità, come al solito, sta nel mezzo: i social network non sono in realtà altro che un luogo. Estensioni delle piazze reali, che possono essere utilizzate allo stesso modo. Salvo che non ci si incontra di persona ma davanti a uno schermo, e al posto di immagini e paesaggi ci si ritrova davanti un flusso continuo di contenuti. Il punto, insomma, è sempre quello: che uso ne facciamo.

E ci si può chiedere: se ne può fare un utilizzo pastorale? Può essere anche questo un luogo di annuncio, di incontro, di dialogo, di scambio di contenuti importanti? Certo. Se soltanto Facebook conta almeno un miliardo di utenti, è un segno che ne vale la pena: bisogna essere lì, dove la gente si incontra. Ma lo stile, i contenuti, le forme di questa presenza rappresentano una sfida continua. Non esistono modi «sicuri» e strumenti consolidati: tutti quelli che ci provano sono, a modo loro, pionieri, un po’ come i missionari che si avventurano in terre straniere. Tutti corrono dei rischi, calcolati o no. Quello che forse a volte si dimentica è che proprio come quando si va in missione non si può farlo da sprovveduti: bisogna imparare la lingua, il «tono di voce» giusto, le tecniche da adottare.

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