Il dolore della famiglia Ruggeri
Alessandro: «Non si è mai arreso»

Alessandro Ruggeri, il ragazzo costretto a diventare adulto tutto d'un colpo, non ha paura di confessare quello che il destino gli ha strappato: «Io vivevo in simbiosi con papà, dove c'era lui, c'ero anch'io. È stata la mia università. Non si è mai arreso».

La villa sulla collina è avvolta da un manto di silenzio dolente. Rivederla, dopo tanto tempo e con stato d'animo completamente ribaltato, è una brutta situazione. Ivan Ruggeri organizzava qui, in questo angolo di paradiso, le cene con i giornalisti, anni addietro, ed era un'occasione ghiotta dal lato gastronomico, ma soprattutto gratificante per i rapporti personali che si potevano arricchire o rinsaldare.

Era il momento buono per chiarire qualche screzio o qualche incomprensione, mentre Diego, il maggiordomo di casa, proponeva le prelibatezze che aveva preparato. Ieri Diego era all'ingresso della villa con compiti diversi: smistava il traffico delle visite, facendo attenzione perché nessuno recasse disturbo al dolore della famiglia. Un dolore composto.

Un dolore affettuoso, se possiamo scriverlo, che viene incontro ad ogni singola persona salita fin lassù. Il presidente è nel grande salone, ha vicino un elegante vaso di bellissime rose bianche, baciate della luce che filtra dalle vetrate. Dicono che quel colore di rose abbia molteplici significati. A noi piace «Siamo orgogliosi di te» (praticamente una dedica) e «Segretezza e silenzio».

Nonostante l'afflusso di gente, domina infatti la quiete. Interrotta, qua e là, da bisbigli sussurrati. Come quelli di Francesca, la splendida primogenita, quando parla del suo papà: «Non posso, in questo momento, scegliere un ricordo particolare perché lui era straordinario sempre, tanto da riuscire ad insegnarmi un sacco di cose anche nel periodo della sofferenza. Lui ci ha trasmesso valori importanti, che considerava fondamentali, come il rispetto, l'onestà e la correttezza nei rapporti. Papà è un uomo speciale, credimi».

Attraverso le vetrate, avvolto da una leggera foschia, si staglia lontano il profilo di Città Alta. Chissà quante volte avranno cercato risposte, in quel profilo che pare una pittura sacra, la signora Daniela e i suoi ragazzi, affannati da una quotidianità che non prometteva soverchie illusioni. Sono sempre stati una bella famiglia, i Ruggeri, non c'era davvero necessità di metterli alla prova, ma certamente questi terribili cinque anni, se possibile, ne hanno fortificato ancor più l'unione.

Alessandro, il ragazzo costretto a diventare adulto tutto d'un colpo, non ha paura di confessare quello che il destino gli ha strappato: «Io vivevo in simbiosi con papà, dove c'era lui, c'ero anch'io. È stata la mia università. Non ho avuto bisogno di studi particolari avendo vicino un uomo della sua statura morale. Mi bastava guardarlo e assorbire. Era un personaggio pubblico, aveva ormai conosciuto le figure più importanti del mondo imprenditoriale, amministrativo e sportivo: eppure quelle a cui teneva di più erano le sue amicizie di sempre e i legami con le persone più semplici. E so che può sembrare strano, ma è stato una guida e un esempio anche durante la malattia».

Già, un periodo che sarà stato un'altalena angosciante di speranze e disillusioni. «Non voleva mollare, ha dimostrato un attaccamento alla vita davvero incredibile, anche a detta dei medici: d'altronde la sua indole è sempre stata quella di non arrendersi mai. Averlo a casa negli ultimi tre anni è stata una prova d'amore straordinaria: mamma Daniela era sempre con lui, giorno e notte, un'esperienza tenerissima e, al tempo stesso, affollata di angoscia e di dolore». C'è gente che va e che viene, Diego smista il traffico con puntigliosa solerzia, ma non si dà pace nemmeno lui, dopo più di vent'anni al servizio su in villa. Tutt'intorno resiste il silenzio. Forse anche gli animaletti del bosco hanno capito. Il leone, stavolta, s'è addormentato davvero.

Pier Carlo Capozzi

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