Il signor Mino e quelle partite
che si vincono anche insegnando

Fermo Favini, in arte Mino, una delle menti più lucide e più sagge del nostro calcio, il «mister» per generazioni di calciatori in erba cresciuti a Zingonia muove da qui: per lui, re dei talent-scout, didatta per eccellenza, il calcio non si esaurisce nei 90 minuti.

«Posso indicare qualche partita importante, certo. Ho avuto una buona carriera di calciatore e ho una lunga esperienza di settori giovanili, ma non sono le partite ciò che mi interessa di più».

Fermo Favini, in arte Mino, una delle menti più lucide e più sagge del nostro calcio, il «mister» per generazioni di calciatori in erba cresciuti a Zingonia (e prima a Orsenigo, quando stava al Como) muove da qui: per lui, re dei talent-scout, didatta per eccellenza, il calcio non si esaurisce nei 90 minuti, ma è un’avventura che dura mesi, a volte anni. Quelli necessari a osservare la maturazione di un ragazzo, la sua ascesa e, magari, la sua consacrazione; ovvero, a verificare se determinati metodi di lavoro danno frutto.

Perciò, richiesto, cita qualche singolo match che gli è rimasto nella memoria, ma poi la conversazione si trasforma in una chiacchierata sul football in generale. Fuori è un primo pomeriggio uggioso di dicembre, nella sala riunioni del Centro di Zingonia, alle spalle di Favini brillano trofei, coppe e targhe che raccontano la bella storia dell’Atalanta. Una mezz’ora e scenderanno in campo i ragazzi di Bonacina.

«A Bergamo - racconta - facevo parte di un signor centrocampo, con Maschio, Nielsen e Colombo. Ero mezz’ala, non segnavo spesso, quindi ho ben presenti le occasioni in cui accadde. Per esempio, nel ’61-’62 alla prima ne prendiamo 6 a Milano dall’Inter di Herrera. Nella seconda però ci riscattiamo, battendo il Venezia 3-1 in un finale convulso: al sessantesimo segnano loro su rigore; poi pareggia Olivieri e il 2-1 è un gol mio un po’ casuale, un cross sbagliato finito in rete. Il suggello verrà dal danese Christensen».

Ricordo chiama ricordo: «Quell’anno l’Atalanta arrivò sesta, e io segnai all’Udinese sia là che qua. In Friuli vincemmo 1-2, rete del vantaggio mia con un tiro all’angolino su respinta corta; qui, identico risultato, ma io realizzai il secondo anticipando il loro portiere in uscita, sotto quella che oggi si chiama Curva Pisani».

Già, Pisani: una ferita sempre aperta, per chi lo aveva amato e visto formarsi nella nostra «cantera».

Non a caso, Mino Favini ricorda con affetto le due finali del Torneo di Viareggio che nel febbraio del ’93 videro prevalere la banda Prandelli contro il Milan: «Fu uno 0-0 la prima, e si vinse poi 2-0 la seconda, disputata il giorno successivo. Pisani la giocò per circa ottanta minuti. Quel “Viareggio” fu memorabile anche per il clima interno al gruppo: pochi sanno che Cesare, la sera tra la due sfide sfida con i rossoneri, stemperò la tensione girando di camera in camera travestito da diavolo…».

La prestigiosa Coppa Carnevale, del resto, aveva dato soddisfazione già in precedenza a Favini, quando, da direttore del settore giovanile del Como, aveva visto i suoi ragazzi annientare per 2-0 la Fiorentina ed era poi stato avvicinato da Azeglio Vicini, allora tecnico dell’Under 21, per un complimento che nel calcio non ha uguali: «La tua, sembra una squadra sudamericana!».

Tecnico di quel Como era Narciso Pezzotti, esperto uomo di calcio, ora in Cina nello staff di Marcello Lippi. La domanda sull’incidenza dell’allenatore vien quasi da sé, e la risposta è di aritmetica chiarezza: «A essere generosi, in una squadra il mister conta per il 30%, il resto lo fa chi va in campo. Poi, di quel 30, il 70% è tattica, il 30 capacità psicologica di tenere il gruppo, motivarlo, renderlo consapevole che si vince e si perde in undici».

Scorrono aneddoti, nomi, episodi, ma tutto ripetutamente converge su un aspetto: per il nostro grande vecchio, fondamentale è la tecnica. Perciò, recentemente ha adorato il Barcellona di Guardiola e in anni lontani discuteva accanitamene con suo cognato, Eugenio Bersellini, allenatore dell’Inter anni ’80 e innamorato di «Gondrand» Pasinato. Costui era un mediano dall’ampia falcata ma dai piedi non eccelsi (di lì, l’epiteto breriano che allude ai grandi camion gialli di una nota ditta di traslochi).

Ebbene, a Favini Pasinato non piaceva gran che, mentre gli piace Pirlo, e pochi giorni fa ha spiegato ai ragazzi di Zingonia perché il regista bianconero sia un campione: «Io per Pirlo feci una malattia, quando era un ragazzino. Oggi tutti lo osannano, ma nessuno indica le sue due vere qualità: i tempi di giocata e il fatto che i suoi passaggi siano non solo precisi, ma anche ben tesi. Una palla di Pirlo arriva a destinazione con la stessa velocità con la quale è partita».

«Tecnica sovr’ogni cosa», potrebbe essere il motto del grande Mino. Tecnica più che possanza, tecnica più che aggressività: la tecnica che riconosceva in Matteoli, quando altri lo volevano esiliare nelle categorie inferiori; la tecnica che ha veduto sopraffina in Didonè, cui forse è mancata un po’ di consapevolezza per diventare una stella («chi nasce bravo, deve fare doppia fatica, lavorare tanto, giocare per la squadra»); la tecnica che vale oro perché «un primo controllo fatto bene fa guadagnare più tempo di una gran corsa». Parole sante, Maestro, e valide non solo per i campi di calcio.

Stefano Corsi

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