Fiocco azzurro, ma in guanti e mascherina
Così si diventa papà al tempo del virus

Fabio Conti: «Bardato come un astronauta posso entrare in sala parto solo all’ultimo momento». Moglie e bebè rivisti solo alle dimissioni.

Sono le 18,50 di martedì 7 aprile quando, bardato quasi fossi un astronauta che sta per raggiungere quella che si scruta lassù in cielo, la «superluna» le cui foto avrebbero di lì a poco riempito i social, varco invece l’ ingresso dell’ ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo perché proprio qui sta per nascere Valerio, il mio secondogenito.

La mattina prima, in questo stesso parcheggio avevo salutato mia moglie Laura che, da sola, si era incamminata, trascinando un trolley, un pancione enorme e tanta paura, verso la stessa entrata. Io invece ero dovuto restare lì, a guardarla immobile accanto all’ auto.

E, come un automa, avevo infilato la chiave nel cruscotto e avevo fatto l’ ultima cosa che mai avrei voluto fare in quel momento: ripartire verso casa. Perché così si diventa papà ai tempi del coronavirus. La gioia più grande viene ridotta, per ovvi e comprensibili (agli altri) motivi, solo ai momenti clou: non si può assistere alla fase iniziale del travaglio, che nel nostro caso prevedeva anche l’ induzione. Si può entrare in sala parto all’ ultimo momento, star lì solo due ore con mamma e bebè e poi tornarsene a casa. Per rivedere moglie e figlio solo alle dimissioni. Il tutto senza bacini, senza abbracci e rigorosamente con la mascherina schiacciata sulla faccia.

Già, la mascherina: quella protezione dal Covid-19 che ha la spiacevole caratteristica di cancellare le bocche dai visi. E infatti la sera di martedì, correndo lungo la galleria dell’ ospedale verso la Torre 1 il più in fretta possibile, incrocio tante facce uguali, all’ apparenza senza espressione.

È la sensazione tipica di quei film dove gli uomini sono diventati automi e camminano tutti inespressivi per una scelta non loro.

Nella realtà, per colpa del maledetto virus. Penso poi che nelle altre torri intorno c’ è gente che sta lottando: qualcuno che non ce la farà, qualcun altro che riprenderà a vivere. Ma ecco un camice bianco che mi viene incontro: è un medico, uno degli eroi di questi giorni surreali. Mi viene spontaneo sorridergli come per dirgli grazie, da cittadino, da bergamasco, da imminente papà.

Ma in un istante concretizzo che il mio sorriso non lo può vedere. Eppure - penso - il mio sorriso è lo stesso che avevo ben stampato in volto quella mattina dell’ agosto scorso - che ora mi sembra circa un secolo prima -, quando con Laura e il nostro primo figlio, Diego, oggi quattro anni e mezzo, ci eravamo alzati che era ancora buio per vedere l’ alba sulla spiaggia di Pineto, in Abruzzo. In un attimo il sole era spuntato dall’ orizzonte del mare e tutto si era velocemente colorato e riscaldato: più o meno quello che sarebbe accaduto tra poco in sala parto. Ebbene, proprio quel giorno d’ estate ora così lontano avremmo scoperto che era in arrivo un bebè. E ora eccolo davvero qui, Valerio: tre chili e 480 grammi per 52 centimetri, nonché il 991° bimbo che nasce al Papa Giovanni da gennaio.

Laura lo tiene sulla pancia: intravedo dagli occhi la sua gioia. Che, dietro gli occhiali appannati e la postura impacciata di tutti i papà in sala parto, è anche la mia. A me concedono di tenerlo in braccio - con i guanti - solo alcuni minuti. Che spero non finiscano mai.

A gennaio era stata mia moglie, biologa al settimo mese, quando si era iniziato a parlare del coronavirus a Whuan, a dirmi che sarebbe stato un problema se l’ epidemia si fosse estesa al di fuori dei confini della Cina. Io, da inguaribile ottimista e da cronista di nera che un po’ ne ha viste, le avevo risposto che mi sembrava veramente un’ ipotesi molto remota.

Ed era stata sempre lei, all’ ottavo mese, la mattina del 21 febbraio, a strattonarmi nel letto e svegliarmi per dirmi che c’ era stato il primo caso in Italia. «Dove?». «A Codogno». Vicino a Lodi. Non più nella lontanissima Cina, ma a due passi da casa.

«Santo cielo», pensai. Ma le dissi: «Sì, ma dai, è un singolo caso». Senza crederci nemmeno io. Quel giorno poi portammo Diego vestito da pirata alla sfilata di Carnevale della scuola materna, senza immaginare che sarebbe stato l’ ultimo baluardo di normalità per un bel po’. E senza nemmeno lontanamente pensare che qualcuna di quelle persone incrociate sorridenti anche quel giorno lungo le strade di Pontirolo Nuovo, solo un mese e mezzo dopo non ci sarebbero state più.

Due ore dopo la nascita di Valerio sono costretto a lasciare l’ ospedale e ritorno all’ auto tra l’ euforico e lo spaesato. «Le stringerei forte la mano, se solo potessi», mi avrebbe detto poco dopo a un posto di controllo tornando a casa, un finanziere. I due giorni successivi sono avvolti da una sensazione strana: Diego «conosce» il suo fratellino tramite alcune videochiamate (e sia lodata la tecnologia). A me che non possa andarlo a trovare sembra una privazione ingiusta. Poi mi convinco che, ingenuamente, lui pensi sia normale che i fratelli minori si vedano per la prima volta così, da uno smartphone.

Lo stesso da cui in quei tre giorni vede le sue maestre, Nadia e le altre, della scuola Carbonoli: davvero in gamba, tra lavoretti e fiabe, nel colorare con un po’ di normalità questa situazione del tutto anormale. Ma eccolo, finalmente, il giorno delle dimissioni, che coincide con il Venerdì Santo. Faccio Pontirolo-Bergamo con molta più calma della corsa di tre giorni prima. Laura è stanca, ma mi confida che lì dentro sono stati tutti fantastici. A partire dall’ ostetrica Leila Gerosa che ha fatto nascere Valerio, fino a tutte quelle persone che hanno accolto anche me in sala parto con professionalità e umanità, facendoci sentire a nostro agio, nonostante tutti i pensieri. Nostri e loro. Arriviamo a casa, dove siamo finalmente tutti e quattro assieme e dove Valerio diventa il fratellino in carne e ossa anche per Diego. Resta però inevitabilmente ancora «virtuale» per i nonni.

Vado in farmacia per comprare una pesa per neonati e, mentre prendo il bancomat dal portafogli, scorgo l’ immaginetta della Madonna che la bisnonna Silvana, 88 anni tra un mese e blindata in casa da altrettanto tempo, mi aveva fatto pervenire la settimana prima: «Tenetela e vedrete che andrà tutto bene», ci aveva rassicurato. «Tanti auguri», mi saluta il farmacista. «Grazie», gli rispondo. E, abbozzando l’ ennesimo sorriso che nessuno vedrà, aggiungo: «Buona Pasqua».

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