Antonio Di Pietro e Bergamo
«Rifarei il pm, ma il politico no»

La nuova vita dell’ex magistrato simbolo di Mani pulite: studio legale a Roma e l’azienda di famiglia a Montenero. «Cambio spesso mestiere: ho fatto anche l’operaio. Ma non rifarei il politico: troppe accuse subìte».

Ma che fine ha fatto Antonio Di Pietro? «Eccomi qua, presente: faccio l’avvocato e seguo la piccola azienda agricola di famiglia a Montenero di Bisaccia, in provincia di Campobasso. Mi sto reinventando, perché una mia caratteristica è quella di cambiare spesso mestiere. Ricordo ancora l’esperienza di operaio in Germania, addetto a una filiera che produceva coltelli e forchette: eravamo in sei tutti di Paesi diversi, più il capo tedesco»: risponde così l’ex pubblico ministero di Mani pulite, parlamentare per quasi 15 anni, eurodeputato, due volte ministro nei governi Prodi, fondatore e leader dell’Italia dei valori.

Addio, o quasi, a tutto questo: basta politica, basta controversie. Giunto a 65 anni, è un tranquillo e disteso signore, in pace con se stesso e che intende esserlo pure con il mondo. Pensate un po’: in questi vent’anni, fra cause subìte e in gran parte attivate dall’ex magistrato («Per difendere l’onore di Mani pulite e mio personale»), ha collezionato qualcosa come quattrocento processi, alcuni tuttora in corso: «Avendo bisogno di un po’ di pace, vorrei chiudere le cause ancora aperte con una stretta di mano e mi auguro di farlo pure con “Report”».

Già, perché quella micidiale puntata di Milena Gabanelli, quei pochi minuti che hanno colpito in modo fatale l’uomo Di Pietro, gli sono rimasti appiccicati: «Sì, ho vissuto quel capitolo con molta amarezza, ma non vorrei essere frainteso perché ho rispetto sia della Gabanelli sia del giornalismo d’inchiesta. Quel servizio giornalistico ha utilizzato soprattutto interviste a personaggi che proprio per quel che avevano detto in precedenza erano già stati condannati. È stato inviato il messaggio che io mi sarei arricchito con i rimborsi elettorali, il che è una ricostruzione storica falsa smentita più volte dalla magistratura. Tutto questo mi ha procurato una sofferenza che mi ha fatto molto male. Però ripeto: sono passati gli anni e non voglio più avere né rancori né desideri di rivalsa nei confronti di nessuno».

Questo spaccato gli offre lo spunto per parlare di due – chiamiamole così – controparti bergamasche: Severino Citaristi e Vittorio Feltri. Dell’allora segretario amministrativo della Dc dice: «Ho fatto l’inchiesta Mani pulite in perfetta buona fede, convinto com’ero che così andava fatta e non ero affatto eterodiretto. È chiaro comunque che alla resa dei conti qualche passaggio posso averlo sbagliato. Ma voglio ricordare un bergamasco, Citaristi, che da me ha ricevuto decine di avvisi di garanzia: se c’è un bergamasco al quale non ho mai trovato una lira, questo è proprio Citaristi. Ha svolto il suo mestiere di segretario amministrativo della Dc e come tale era parte del sistema di illecito finanziamento dei partiti, ma non c’è una prova che ne abbia approfittato sul piano personale. Nei suoi confronti ho mantenuto il massimo rispetto: una persona perbene che ha servito un partito, ma non un approfittatore, a differenza invece di tanti altri indagati».

Ed eccoci a Feltri, oggi Tonino ne parla come un buon amico: «Con lui ho avuto grandi scontri e grandi incontri. Tante cause in comune, poi risolte con gentlemen agreement: transazione e stretta di mano. A quel tempo ho incontrato più volte Montanelli e Feltri, nel periodo in cui dirigeva “L’Indipendente”. Feltri all’inizio ci sosteneva e con il tempo è diventato critico: ma le sue erano critiche e quindi accettabili. Invecchiando entrambi, guardiamo con distacco sia le lodi sia le contestazioni: coltiviamo un rispetto reciproco e ci sentiamo spesso da buoni amici».

Bergamaschi e dunque Bergamo: il rapporto con la città, per Di Pietro, non è mai stato scontato o dato per sempre. Una frequentazione non assidua, ma cadenzata dalla continuità e che lui spiega così: «Le mie radici ormai sono qui. Qui mi sono sposato con Susanna, che è avvocato, e qui, negli anni ’80, ho esordito come pm. Sono diventato bergamasco sotto la tutela di mio suocero, l’avvocato Arbace Mazzoleni, un grande personaggio. Il punto di riferimento resta la nostra casa a Curno, dove ci ritroviamo rientrando tutti da ogni parte del mondo: io in giro per l’Italia, mia figlia Anna, avvocato a Bruxelles, e mio figlio Antonio, che proprio in questi giorni sta tornando dagli Emirati Arabi».

Pubblico ministero a Bergamo vuol dire soprattutto l’inchiesta sul «mostro di Leffe», sulla rapina al Monte dei pegni e l’indagine sui fallimenti occulti, cioè pilotati per creare utili in nero. Questa indagine, una delle prime sui «colletti bianchi» a Bergamo, fece scalpore e nella biografia di Di Pietro s’è rivelata una pista che gli ha fornito un preciso orientamento: «Quella esperienza ha contribuito alla mia formazione investigativa specifica che mi è stata utile per Mani pulite: anche lì la chiave di volta per arrivare alla corruzione era la falsificazione dei bilanci».

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