Covid, positivi e poco contagiosi
«Vero, ma serve cautela»

Il fatto che ora ci siano molti pazienti con poche tracce di virus è un dato reale. Rizzi: «Probabile che non sia più in grado di replicarsi». Di Marco: «Sul trend bisogna però capire quanto influisce il distanziamento»

Debolmente positivi». L’ottimismo degli ultimi giorni viene (anche) da lì. Da quella coppia di parole stampata sull’esito di una buona fetta dei tamponi processati in Italia e nella nostra provincia. Si tratta in gran parte dei casi di persone che, con il test sierologico ad accertare l’effettiva presenza di anticorpi, risultano debolmente positive ai tamponi. Senza aver più alcun sintomo, ammesso che ne abbiano mai avuti. Ecco: ma che una larga parte di coloro che ogni giorno finiscono nei conteggi di Regione Lombardia sia «debolmente positiva», che significa? «Significa che, in questa fase, ci sono sempre più persone che hanno soltanto tracce di virus, dei meri residui – spiega Marco Rizzi, primario di Malattie infettive del Papa Giovanni di Bergamo -: casi in cui crediamo il virus non sia più attivo, non in grado di replicarsi o infettare altre persone».

Ed è proprio questo il tema caldo delle ultime ore, quello attorno a cui la comunità scientifica discute e, in alcuni casi, si divide: la non contagiosità degli «ultimi» positivi rimasti in Italia, gran parte dei quali asintomatici. «Con ogni probabilità queste persone non sono contagiose. Spesso sono cittadini che entrano in ospedale per patologie che nulla hanno a che fare con il coronavirus ma che, costrette dai protocolli a fare il tampone, scoprono di essere positive. Senza un solo sintomo. Ecco, crediamo che siano persone che non hanno un virus cosiddetto “intero”, attivo, vitale, come quello che vedevamo nella fase clou dell’epidemia. Ma siccome un metodo rapido per accertarlo non c’è, o meglio non per indagini di massa, dobbiamo attenerci alle misure di isolamento». Un metodo, in realtà, ci sarebbe. «Si manda il campione di Rna ad alcuni laboratori specializzati, noi in passato lo abbiamo mandato al laboratorio di Pavia, e si vede se in coltura il virus cresce.

Se lo fa, significa che è attivo e vitale. Ma è chiaro che non si può applicare questo metodo, che si usa per la pura ricerca, a tutto il bacino di pazienti». Ci sono però i dati solidi a parlare. E a confermare l’ottimismo: nel mese di giugno al Papa Giovanni non s’è registrato nemmeno un ricovero di paziente in gravi condizioni positivo al virus: «E difatti questo ci aiuta a dire che siamo alla coda dell’epidemia. Peraltro, vista la grande circolazione del virus in Lombardia e soprattutto nella Bergamasca, è difficile credere che si registreranno nuovi focolai. Anche perché la progressiva diminuzione delle misure di prevenzione messa in atto nella nostra regione non ha portato ad alcun rimbalzo dei contagi. Siamo quindi lievemente ottimisti: è probabile che nelle prossime settimane cada anche l’obbligo di utilizzo delle mascherine».

E se i contagiati ora sono «debolmente positivi», può significare che il virus sia in quei casi meno forte e contagioso? «Esatto – risponde Fabiano Di Marco, primario di Pneumologia al Papa Giovanni e professore associato di Malattie dell’apparato respiratorio alla Statale di Milano -. Se una persona ha un virus che si replica pochissimo a livello del naso, è molto più difficile che anche in un ambiente chiuso abbia una carica virale tale da infettare altre persone. Ed è molto presumibile che un virus a bassa carica sia responsabile di un quadro clinico decisamente più benigno, a differenza di ciò che capitava quando la concentrazione virale era più alta, cioè a marzo-aprile».

Passati i mesi di tempesta, oggi la quotidianità della sfida al coronavirus, vista dalla prospettiva di reparti e corsie, offre uno spaccato ben diverso: «Da settimane non si vedono più casi di Covid-19 significativi. Questa considerazione, però, va sempre associata al fatto che noi non sappiamo perché non vediamo più casi significativi – specifica Di Marco -. Se non li vediamo perché è cambiato il virus, sarebbe possibile cambiare le nostre abitudini maturate recentemente. Se viceversa i casi significativi non li vediamo più proprio perché abbiamo cambiato abitudini, e cioè abbiamo imparato a convivere con mascherine e distanziamento, allora ci vuole molta cautela. Visto che al momento non abbiamo la certezza su quale delle due ipotesi prevalga, è ragionevole mantenere ancora le misure. L’analisi costi-benefici, in sostanza, è a favore della prudenza: le mascherine sono un “fastidio” sopportabile».

Sull’identikit dei «debolmente positivi», il primario pone allora una distinzione: «Sono infetti, non malati: sono cioè persone che hanno contratto il virus settimane fa e hanno scoperto la positività tendenzialmente tramite un tampone conseguente al test sierologico o perché sono giunte in ospedale per altre patologie, ma non hanno significative problematiche dal punto di vista clinico. Viceversa, a marzo e per buona parte di aprile ogni tampone positivo coincideva con un paziente con una malattia così grave da necessitare il ricovero. Occorre però trattare questi pazienti come fossero infettivi, per una questione organizzativa di cautela. Ci sono dati non italiani che mostrano come le persone con tampone positivo abbiano rischi operatori maggiori: da un’analisi estremamente preliminare, da noi però non sembra così». Ne consegue un cambio di prospettiva per cogliere lo stato d’avanzamento della pandemia: «La cartina al tornasole sono i ricoveri in terapia intensiva», conclude Di Marco.

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