Covid, un anno dopo: i ricordi dei lettori
«Così la nostra vita è cambiata» - Video

Un anno di pandemia, che cosa ti ha lasciato? Con questa domanda abbiamo aperto ai lettori uno spazio virtuale dove poter condividere i ricordi di questi mesi difficili. Ecco un estratto dei loro racconti.

Un anno di pandemia, che cosa ti ha lasciato? Con questa domanda nelle scorse settimane abbiamo aperto ai lettori uno spazio virtuale dove poter condividere i ricordi di questi mesi difficili. Storie di dolore come quelle di chi ha perso un proprio caro, di chi ha vissuto la malattia, storie di solitudine e isolamento, di abitudini bruscamente rivoluzionate, di spazi alterati, difficoltà economiche e psicologiche, ma anche storie di generosità, di volontariato, di unità ritrovata, di guarigione, speranza e rinascita. Sono arrivate tante testimonianze, ne abbiamo scelte alcune.

«Ricordo i silenzi rotti solo dalle sirene - racconta Davide Vitali -. I miei genitori che tutti i giorni mi chiamavano e stavamo al telefono il tempo di dirci “per ora tutto ok”. Mia moglie che prende la febbre, la corsa per il tampone e i 10 giorni di clausura con il terrore addosso. Ricordo come Bergamo tutta ha reagito: con orgoglio, compassione, empatia e tanto “far andar le mani”. Ricordo di non aver mai pianto così tanto come nel 2020. Soprattutto, quanto sono stato fortunato io e quanto lo sono ora per essere qui a ricordare. La vita di tutti è cambiata radicalmente, io so che da marzo scorso le mie priorità sono state ribaltate».

Sebastiano Levi Morenos aggiunge: «Ho preso il Covid a marzo 2020 e sono stato in terapia intensiva fino a fine giugno. I primi passi sono stati i più difficili, non mi reggevo in piedi e ogni sforzo che facevo era una pena: un ricordo che mi porterò per tutta la vita. Tuttora sono in terapia e in riabilitazione fisica. Ringrazio tutti i medici e le infermiere che mi hanno accudito Grazie dal più profondo del cuore! Un grazie particolare alla responsabile della Terapia intensiva B».

Anche Elena Ripamonti ringrazia medici e infermieri, in particolare «l’équipe della Terapia intensiva settore B del Papa Giovanni per tutto quello che hanno fatto per mia mamma, ricoverata dai primi di novembre. Si è spenta tra le loro braccia pochi giorni dopo, amorevoli fino alla fine, noi ora non siamo più quelli di prima e mai più lo saremo».

«Ricordo soprattutto i miei genitori – dice Roberto Butti, infermiere in una casa di cura – affacciati alla finestra quando parlavamo al telefono dal cortile sotto casa dopo aver lasciato la spesa sul pianerottolo, col terrore di poter veicolare il contagio. Il 21 febbraio di quest’anno mio papà, 87 anni, e mia mamma, 83, hanno ricevuto la prima dose di vaccino. In quell’iniezione un concentrato della speranza».

C’è chi ricorda l’esperienza in Terapia intensiva: «Un’esperienza psicologicamente devastante - scrive Bruno, che è stato ricoverato al San Raffaele -. Ero stanco, demotivato e a un certo punto avrei voluto mollare, ma c’è la mia famiglia - moglie, figlia e nipotino - che volevo rivedere almeno una volta». A distanza di 12 mesi il ricordo di quanto vissuto con in virus «è sempre presente – aggiunge Bruno – anche perché la televisione ne parla tantissimo e molte volte raccontando non vere o tendenziose. Un ricordo, “un tarlo” che non ti abbandona mai; i tuoi compagni di stanza che sono usciti e non sono più tornati, il senso di colpa per essere sopravvissuto mentre altri non c’e l’hanno fatta. Certe persone pensano che il Covid sia un malanno come l’influenza o poco più: per molti può anche essere vero, ma per chi l’ha vissuto pesantemente è una malattia devastante, non solo nel fisico ma anche mentalmente. E il pensiero va agli “ormai” 100.000 morti. Unico ricordo bello: tutti gli operatori sanitari, a partire dai medici, infermieri, volontari, fino agli addetti alle pulizie. Sono stati stupendi».

«Il mio primo ricordo – scrive Lalla – è il silenzio, innaturale. Silenzio per strada e silenzio in casa, ascoltando le notizie di ora in ora sempre più devastanti. La mia vita è cambiata, abituata com’ero a ritmi di lavoro pressanti, ho dovuto far mia una nuova normalità, quella dei ritmi dilatati e del tempo per riflettere. Ho dovuto accettare il cambiamento, il lavoro che, improvvisamente, non c’era più, l’angoscia per il futuro, il timore di perdere i miei cari. Le prime due settimane le ho passate a combattere il Covid a casa, con la paura che la situazione potesse precipitare improvvisamente portandomi a dovermi separare da mio figlio. Sono stati mesi strani, ovattati, permeati di tristezza, mesi in cui ho riscoperto il valore delle piccole cose che prima davo per scontate, un caffè con gli amici, la libertà di poter vedere la mia famiglia, l’abbraccio di mia mamma, una passeggiata al sole. Quest’ultimo anno mi ha lasciato la consapevolezza di non voler più ritornare alla vita di prima, scandita unicamente dai ritmi stressanti imposti dal lavoro. C’è una vita nuova da vivere».

E Omar, volontario, aggiunge: «Ho vissuto il Covid come volontario della Protezione civile Bersaglieri di Seriate e durante la nostra attività di controllo parchi, alla chiesa di San Giuseppe, l’adrenalina non mi faceva rendere conto di tutto, ma ho assistito in prima persona ai camion dei militari: queste immagini e ciò che abbiamo vissuto rimarrà nel mio cuore per tutta la vita». Marta, soccorritrice, ricorda «il coraggio di andare dei miei colleghi soccorritori, il sorriso dei ragazzi/e delle associazioni fuori provincia che ci hanno dato una mano sulle ambulanze e alla dimanda: ma chi ve lo fa fare ?, loro rispondevano “avete bisogno, noi siamo venuti a darvi una mano”».

Cinzia, commerciante, racconta: «Il 7 marzo 2020, alle 19,30, ho chiuso il mio negozio in Borgo Palazzo. Avevo passato la giornata a ricevere disdette. Niente più feste, niente palloncini. Dieci giorni dopo la terribile notizia della perdita di un caro amico, ricordo la sensazione di vuoto, di panico. Coi colleghi ci facciamo forza, cerchiamo di essere positivi, un tam tam in tutta Italia per comporre un video da pubblicare “restiamo a casa”. A fine aprile si ricomincia in qualche modo a lavorare, consegna a domicilio. Qualche raid veloce in negozio per prendere il materiale necessario ed infine la decisione di chiudere definitivamente. Oggi son qui, decisa a tenere duro, ancora un anno, mi dico, poi si ricomincerà a lavorare bene. Sento nella gente la voglia di fare festa e di amare».

«L’incertezza, la fragilità - racconta Giovanna - la stessa con cui salutavo ogni mattina mio marito medico in prima linea in questa battaglia. La forza dell’amore mio e dei nostri figli erano e sono il suo ossigeno ed abbiamo deciso di rimanere al suo fianco. Nei suoi occhi spenti dal dolore, ogni sera l’amore e l’innocenza dei bambini cancellavano il buio e riportavano la speranza». «Abbiamo allontanato i nonni per stare insieme, noi, solo noi – prosegue –. Per alcuni era faticoso stare chiusi in casa, per noi era già un grande risultato svegliarsi e vedere il papà senza febbre, mentre uno ad uno i colleghi si ammalavano più o meno gravemente. Noi siamo qui e lo possiamo raccontare, ma la mente porta ricordi che non se ne andranno mai...fragilità»,

«L’anno scorso - racconta Roberto - senza saperlo ero l’uomo più felice del mondo fino a quel dannato 6 marzo, quando accompagnai mio padre in ospedale, con seri problemi respiratori che l’hanno portato alla morte dopo soli 11 giorni. Mia madre fu ricoverata 4 giorni dopo di lui, grazie a Dio dopo due mesi tornò a casa: per quattro giorni sono stati in camera assieme e lei ha visto l’uomo della sua vita, dopo 52 anni di matrimonio, andarsene. A me è rimasto un grosso vuoto e il fatto di non essergli stato vicino».

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