Essere o non essere
populisti a sinistra

Di che cosa parliamo quando parliamo di sinistra? Di George Orwell, per esempio, che prima di diventare un aggettivo («orwelliano», appunto, usato in tutto il mondo per descrivere i meccanismi totalitari di controllo del pensiero nell’allegoria del Grande Fratello) scrisse un libro profetico sulle contraddizioni della politica. Si intitola «La strada per Wigan», uscì nel 1937, cioè dieci anni prima de «La fattoria degli animali» e «1984», e descrive le condizioni di vita dei minatori di carbone nell’Inghilterra settentrionale. Pagine dense e illuminanti in cui si possono leggere brani come questo: «Quello che mi colpisce é che il socialismo perde terreno proprio là dove dovrebbe guadagnarne. Con tutte le risorse di cui dispone – poiché ogni pancia vuota é un argomento a suo favore – l’idea di socialismo, così come ci viene presentata oggi, ha in sé qualcosa che allontana da lei proprio quelli che invece dovrebbero unirsi per assicurare il suo avvento».

Parlando di sinistra, l’evento più stimolante avvenuto in Europa nell’ultimo anno é la vittoria di Benoît Hamon alle primarie socialiste francesi. Come Trump, non era il favorito, e proprio come il tycoon newyorkese non era coccolato dai giornali. L’outsider Hamon ha fatto saltare il tavolo pescando un jolly, il salario minimo universale: idea tutt’altro che nuova e ultimamente relegata a latitudini finlandesi, ma che lui ha saputo rimettere a lucido ammantandola di suggestioni utopistiche. Per spiegare il suo successo, Benoît Hamon cita Bernie Sanders negli Usa, il leader del partito laburista Jeremy Corbyn in Gran Bretagna e il movimento Podemos in Spagna. Che cosa hanno in comune? Il rifiuto delle soluzioni classicamente social-liberali, la critica dell’attuale modello di ridistribuzione delle ricchezze, la granitica certezza che una democrazia diretta e partecipativa è meglio di una democrazia rappresentativa. Inoltre, l’insofferenza, a tratti feroce, nei confronti delle élite politiche.

Hamon, Sanders, Corbyn e Podemos, tutti sono causa e insieme conseguenza della crisi della socialdemocrazia. Accanto a loro, sembra un reperto archeologico Hillary Clinton, democratica fatta a pezzi dal miliardario giacobino Trump nella corsa alla Casa Bianca. Le convinzioni ideologiche di Hillary riposano largamente sulle fondamenta della terza via stabilita dai Nuovi Democratici, nati alla fine degli anni ’80 del secolo scorso. Una piattaforma di pensiero concepita in contrapposizione al conservatorismo trionfante dell’era reaganiana: partiva dalla premessa che il declino dei movimenti sociali aveva sepolto di fatto le politiche di giustizia fiscale e quindi per questo, pragmaticamente, conveniva allinearsi all’idea di uno Stato alleggerito, ricalibrato sull’aiuto alle imprese piuttosto che ai cittadini.Che cosa diceva Orwell nel 1937? Che la sinistra va in crisi di consensi quando non riesce a rimodellare il suo pensiero alla luce e in funzione del presente. La crisi finanziaria del 2008, obbligandola a riconsiderare la questione del rapporto con il capitalismo, ha colpito al cuore la socialdemocrazia, che nella seconda metà del Novecento si era progressivamente, inesorabilmente incarnata nella prassi di governo.

Qualcuno meglio, qualcuno peggio, spesso al prezzo di contorsionismi da circo Barnum, i partiti al potere riuscivano sempre a far coesistere al loro interno la vocazione anti-liberale e la responsabilità del potere e dunque l’accettazione di compromessi più o meno dignitosi con il liberalismo economico. Ora questi partiti di governo si trovano di fronte a un bivio. O tornano all’opposizione, lasciandosi cullare dalla corrente protestaria, oppure si spaccano in due, e la loro ala destra andrà a cercare sponde, dialogo, intese, alleanze con la destra moderata. In entrambi i casi perderanno quella centralità che, sia detto senza offesa, ha garantito una rendita di posizione talmente forte da mascherare ogni soprassalto identitario.Non é facile vivere il proprio tempo interpretandone le esigenze senza smarrire la propria identità o, peggio, rinnegare il proprio passato. É ormai chiaro a tutti che la globalizzazione lascia sul campo parecchi feriti, esseri umani battuti, pesti, sanguinanti, esclusi, avviliti nella loro dignità di lavoratori (Papa Francesco ieri, ancora, è tornato a invocare un cambiamento nelle regole di «un capitalismo che continua a produrre scarti che poi vuole nascondere»).

Nella deriva preconizzata dagli studi di Thomas Piketty le società occidentali tendono ad assomigliare sempre di più alle società dell’America Latina. In estrema sintesi, e banalizzando un po’: là dove c’é un’oligarchia, può esserci un populismo. Domanda. É una bestemmia pensare a un populismo di sinistra? Se il populismo di destra poggia sul concetto di popolo nazionale, escludente gli immigrati, il populismo di sinistra sarebbe chiamato a unire facendosi carico di richieste eterogenee che non si declinano necessariamente in volontà popolare (un operaio non ha gli stessi interessi e gli stessi orizzonti di un immigrato). Se e quando questo accade, il popolo cessa di essere quel che é stato per tanto tempo, cioè un dato acquisito, e diventa una costruzione. Per questo il Bertinotti di Francia (con assai meno cachemire ma più senso della piazza), Jean-Luc Mélenchon, ama ripetere: «Non bisogna riunire la sinistra, ma federare il popolo». Non aiuta nel cambiamento il timore di avventurarsi sui sentieri selvaggi di territori ideologicamente poco frequentati, se non sconosciuti. Forse non sarà più la socialdemocrazia a scaldare i cuori sotto il sole dell’avvenire, e neppure il giacobinismo rivoluzionario, bensì un riformismo radicale, quello che qualcuno comincia a chiamare populismo agonistico, perchè accetta di lottare all’interno delle istituzioni democratiche senza ricorso alla violenza.

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