I colori della tavolozza nutrono l’anima
e i suoi quadri danno forza ai dializzati

L’architetto Giorgio Gervasoni, ha riscoperto la passione per la pittura durante la malattia. Ora espone in reparto.

Un giorno Giorgio Gervasoni si imbatte in una scatola di colori a olio, riposta in uno sgabuzzino e dimenticata lì per cinquant’anni. Soffia via la polvere, la apre e gli sembra che tutti quei tubetti - giallo brillante, Bruno Van Dick, Rosso di Cadmio... - siano stati messi lì apposta per invitarlo a riprendere la sua antica passione, la pittura. Grazie a questo incontro inaspettato riacquistano slancio emozioni sopite. Come diceva il pittore russo Wassily Kandinsky, nei colori c’è un potere enorme, che influenza direttamente l’anima. Proprio di questo aveva bisogno Giorgio, che ha 75 anni e da quattro deve sottoporsi per due volte alla settimana alla dialisi nel Centro di assistenza limitata (Cal) di via Borgo Palazzo, un’appendice del reparto di Nefrologia dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Per tutta la vita ha lavorato come architetto, ha girato il mondo, è stato completamente assorbito da un’attività intensissima, finché la malattia non l’ha costretto a fermarsi. Poi però, quasi per caso si è cimentato in una nuova sfida. Nel momento più difficile l’ha soccorso il sogno che covava nel cuore fin da quando aveva quattordici anni e seduto sui banchi del liceo classico Sarpi, durante le lezioni di Storia dell’Arte, tracciava schizzi rapidi sul blocco degli appunti. «È forse questo che si cerca nella vita – scrive Louis-Ferdinand Céline nel suo “Viaggio al termine della notte” –, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi, prima di morire».

Poi un giorno, quattordici anni fa, rientrando da Ferrara in auto con la moglie, Giorgio si è accorto che non vedeva bene la strada: «Se non mi avesse avvisato GianElisa sarei andato a sbattere. Non appena arrivato a casa, dunque, sono andato dall’oculista. Sul momento lui mi ha semplicemente segnalato che era ora di operarmi di cataratta». Durante le analisi preparatorie, però, è arrivata un’altra, sgradita, sorpresa: «I medici hanno scoperto che avevo trecento di diabete. Può darsi che l’avessi da molto tempo, ma mi sentivo bene, così non me n’ero accorto. Era da un bel po’ che non facevo nulla, nemmeno gli esami del sangue». Finora Giorgio Gervasoni non ha mai mostrato i suoi quadri a nessuno: «Quelli appesi in casa li vedono i miei familiari e gli amici – racconta –, i miei figli hanno preso l’abitudine di portarsene via qualcuno ogni tanto, perché ormai non so più dove metterli, ma per il resto nessuno sa di questo mio passatempo». L’ha scoperto un giorno per caso Marco Fretti, infermiere del Cal: «Qui nel reparto ho trovato un bellissimo ambiente, i pazienti vengono trattati con grande professionalità e umanità, e anche questo piccolo episodio lo dimostra. Marco ci chiede sempre come stiamo, si interessa di quello che ci succede. Un giorno stavo riguardando alcune immagini sul telefono cellulare, lui si è incuriosito, allora gliele ho mostrate e gli ho raccontato tutta la storia». Così si è messa in moto una nuova avventura che ha coinvolto anche gli altri pazienti del reparto e l’Aned (Associazione nazionale emodializzati) di Bergamo: una mostra personale dal titolo «I paesaggi della memoria» che raccoglierà una ventina di opere, collocate nella sala d’attesa del reparto.

Resterà aperta dal 24 al 29 aprile negli orari di apertura della struttura, da lunedì a sabato dalle 8,30 alle 12 e dalle 14,30 alle 17,30. Sulla locandina si legge uno slogan che è anche una dichiarazione d’intenti: «Crediamo nella vita da 45 anni». «Cerchiamo di impegnarci al massimo – sottolinea Ippolito Gualdi dell’Aned di Bergamo – perché le persone non pensino che questo reparto sia un punto d’arrivo: vale sempre la pena di lottare, fino in fondo, e di coltivare i propri sogni e le proprie passioni, quelle che aiutano a stare bene con se stessi e con gli altri».

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