Il tifoso: «Ecco cosa vuol dire essere ultrà»
Ok, porte aperte, ma mai alla violenza

Su L’Eco di Bergamo di sabato 6 febbraio sono state pubblicate la lettera di un tifoso dell’Atalanta, che scrive che cosa significa essere ultrà, e la risposta della redazione. Le proponiamo entrambe.

Le lettera del tifoso

«L’amicizia, il territorio, i colori. Ecco cosa significa essere ultrà»

«In Italia ci si danna da anni per cercare di comprendere quale sia la via d’uscita dalla crisi senza fine del calcio nostrano e di tutto quello che ci ruota intorno. Modello tedesco, modello inglese. La realtà è che nel nostro Paese il calcio è cultura molto più che in qualsiasi altro luogo. Non è un mero evento sportivo, non è un prodotto da vendere. E allora la crisi è, per forza di cose, riconducibile anche ad un fattore culturale. Un impoverimento lento, ma costante dei valori che hanno plasmato questo Paese tra cui c’è, abbandonando eventuali spocchie e sensi di superiorità, anche l’attaccamento al territorio e alle proprie tradizioni, che nel calcio ed in particolare nel tifo ha una delle sue massime espressioni».

«Lo diceva anche Gianni Brera quando parlava di «faide collettive» come meccanismo per riunire sotto la stessa ala intere comunità con l’intento di affermare, difendere e far crescere le proprie tradizioni e la propria cultura territoriale. E ne parla anche il geografo Claude Raffestin, inconsapevolmente, quando sostiene che esista una differenza molto marcata tra paesaggio e territorio. Il paesaggio si guarda, il territorio si vive. Oggi, molto spesso, si è persa la sensibilità del secondo. Tra le pieghe di questa crisi nascono le controculture, manifestazioni in opposizione ai valori di fondo della cultura dominante».

«Il movimento ultras è una di queste. Sono stati consumati litri di inchiostro e risme di carta per parlarne, spesso in maniera (volutamente) superficiale. Alle riunioni in settimana, quando si preparano striscioni o materiale, allo stadio, si è tutti uguali. Le idee di ognuno hanno valore e meritano rispetto. Ognuno è libero di esprimersi come meglio crede e come meglio riesce, slegato per una volta dalle gabbie culturali di tutti i giorni. Un gruppo di persone sceglie liberamente di unire le proprie idee sotto un ideale dietro al quale riconoscersi».

«È l’affermazione più grande di una controcultura. E si è uguali anche sulla strada, non va nascosto e nemmeno negato. La strada è un punto, il più controverso, il più criticato, il più incomprensibile dell’essere ultras ma in fondo è una naturale conseguenza del percorso tracciato. Un’espressione fuori dalle righe volta ad affermare con forza la scomparsa di ideali che la società sta accettando senza colpo ferire.Un meccanismo di difesa ancestrale.Esagerato?Infantile? Non richiesto? Probabilmente sì. Certamente onesto, fortemente spontaneo. E non sono valori da sottovalutare».

«Una fredda, freddissima sera invernale in un paesino perso tra le valli sopra Bergamo. Una quindicina di ragazzi si avvicina in silenzio ad un’abitazione, espongono uno striscione, accendono qualche torcia, parte un coro. Si affaccia qualcuno, scende. Un abbraccio, forte, lungo, sentito. Muto. È un frammento. Nascosto e segreto. È l’essenza del movimento ultras. I ragazzi tornano da dove sono venuti. Le loro macchine, i loro paesi, la loro vita».

«C’è chi studia, chi lavora, chi perde tempo al bar sotto casa aspettando un’occasione che non arriva mai. Chi ha ricevuto quell’abbraccio è un ragazzo qualsiasi, uno di quelli che potreste incontrare per strada, o facendo la spesa. Dove volete voi, insomma. Eppure viene da una settimana difficile, la più difficile della sua vita. Il carcere, la gogna mediatica, le lacrime di sua madre. Il confronto con i propri (ipotetici) errori e soprattutto con il giudizio degli altri».

«Ma non si è sentito mai solo, perché fa parte di qualcosa più grande di lui e ne è consapevole. Fa parte di un gruppo portatore di valori unici, come l’amicizia, come l’attaccamento ad una terra e a dei colori. Perché dietro a quello striscione sono tutti uguali. Tutti fortemente vicini. E di storie di questo calibro se ne potrebbero raccontare senza sosta, a bizzeffe, e risulterebbero, ai più, del tutto incomprensibili».

«È un meccanismo naturale dell’uomo il giudicare ciò che esce con evidenza dal percorso tracciato ed in seguito emarginarlo. Il passo successivo sarebbe quello di provare a comprenderlo e prenderne il buono. È però un passo forse troppo difficile per una società in preda ad una lenta ma costante crisi culturale»
Gianluca Pirovano

La risposta della redazione

«Caro Gianluca, porte aperte, ma mai alla violenza»

Caro Gianluca, la tua lettera dimostra grande amore per la Curva e per i valori più genuini del movimento ultrà. La bellissima scena che descrivi, con il coro, le fiaccole, lo striscione e quell’abbraccio silenzioso ai ragazzi appena usciti dal carcere, vale più di mille parole. Vincere il freddo intenso, la paura di metterci la faccia, non rassegnarsi al senso comune, alle sirene dell’omologazione. Hai ragione, non tutto si può capire con lo sguardo di chi non vive la Curva. E forse è giusto così.

Però una domanda sorge spontanea, e crediamo qui di interpretare il pensiero dei molti che guardano con simpatia ai movimenti, ma che manifestano perplessità a tutte le «patenti di autenticità», da qualunque parte esse provengano. Va bene la rivendicazione di attaccamento al territorio (tratto comune anche a tanti movimenti che con meno clamore promuovono un discorso culturale, sociale, politico di vicinanza e cura...), ma di che cosa parliamo precisamente quando parliamo di «espressione fuori dalle righe»?

Se è un modo gentile o indiretto per giustificare l’uso di pratiche violente, allora non siamo d’accordo. Perché l’amore per la terra o per la squadra, nulla ha a che spartire con le spranghe.  
P. D.

© RIPRODUZIONE RISERVATA