Lo specializzando al Papa Giovanni
«Il privilegio di aiutare, vedremo la luce»

«Siamo un esercito silenzioso che c’è, e che cerca di fare del proprio meglio per prendersi cura di chi sta male. Siamo in tanti e ci aiutiamo l’un l’altro nell’affrontare la quotidianità e non manca mai una parola di conforto quando si fa più fatica».

Pietro, specializzando in anestesia e rianimazione è da tre settimane in prima linea a combattere il coronavirus all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, la città lombarda che con la sua provincia è stata straziata dall’impressionante numero di malati e morti, quando parla di «esercito» intende proprio «tutti»: dagli specializzandi ai medici più esperti, dagli infermieri agli operatori socio sanitari ed ai tecnici fino al personale che si occupa della sanificazione e delle pulizie.

Trent’anni, anni, laurea in medicina alla Statale di Milano, Pietro è al quarto anno di specialità. Quando è cominciata l’emergenza lui stava facendo il tirocinio nel reparto di rianimazione neurochirurgica dell’ospedale di Bergamo. Stava chiudendo il suo percorso ed immediatamente ha risposto al bando regionale, il reparto si è trasformato in terapia intensiva per i malati di Covid-19 e lui è rimasto lì, «dove si combatte la battaglia più dura, la più estrema. Ma dare la nostra disponibilità per ricevere l’incarico da specializzandi, dopo quanto abbiamo studiato e messo in pratica, - spiega - è stata la cosa più naturale del mondo».

Ecco che allora tutto è cambiato: si sa quando i turni iniziano ma non quando finiscono «perché ci si ferma fino a quando c’è bisogno», si lavora «bardati» e con una «tensione continua» in quanto si ha in mano la vita delle persone: pazienti profondamente sedati e intubati o già svegli ed estubati e che iniziano a respirare gradualmente da soli che vengono monitorati notte e giorno. «Noi medici ci prendiamo cura di tutti - dice - di chi ce la fa e di chi non ce la fa, fa parte del nostro lavoro».

«Da un lato - prosegue - c’è la paura, dall’altra il senso di responsabilità. La situazione è grave ma in fondo questa è la professione che abbiamo scelto e quindi dobbiamo semplicemente fare il nostro lavoro nel miglior modo possibile, consapevoli dei nostri limiti. Per questo non ci sentiamo mai soli: nel caso di bisogno c’è sempre un punto di riferimento e possiamo contare sui medici più esperti». E se un sorriso o un flebile «grazie” di un malato in via di miglioramento «ti dà una mano ad andare avanti» c’è anche il dramma nel dramma: «è doloroso vedere che i famigliari non possono state vicino ai loro cari e noi facciamo il possibile con l’unico modo che abbiano per colmare questo vuoto: stiamo in contatto quotidiano tenendoli informati».

La sera, quando si torna a casa dopo una giornata in trincea, «ho il cuore pesante. In questo momento è dura. Mi scontro ogni giorno con la sofferenza consapevole di avere un privilegio: in questa situazione così grave ho la possibilità, per quanto in minima parte, di dare un contributo e di prendermi cura di chi ha bisogno . Vivo queste giornate buie - conclude Pietro - pensando che quando si vedrà la luce ci sarà un futuro diverso e alla fine per forza ne usciremo migliori. Penso che cambieranno molte cose perché ora siamo obbligati a guardarci dentro e a rimodulare la scala delle priorità».

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