Londra-Hong Kong in bicicletta
L’avventura di Giulia e Damian

I bergamaschi, si sa, sono gente che viaggia. Ma andare da Londra a Hong Kong in bici senza nessun allenamento preventivo, armati di un fornelletto da campeggio, un sacco a pelo e quattro borse piene di 40 chili di giovanile incoscienza non è una cosa che si vede proprio tutti i giorni.

Giulia Saccogna, 32 anni, e Damian Hicks, 36, sono partiti ad aprile dell’anno scorso e sono tornati indietro a dicembre, andando «pianissimo»: ci hanno messo 8 mesi. Lei è una bergamasca di città, fino a ieri il massimo delle sue performance ciclistiche era un giretto sui Colli. Galeotto fu un viaggio in Australia: Giulia incontra Damian, decidono di andare a vivere insieme a Londra ma poi anche la capitale del Regno Unito a loro inizia ad andar stretta. Damian è un ingegnere biondo, barba lunga da vichingo, è cresciuto nella terra dei canguri ma viene da una famiglia di origine danese, irlandese, inglese, tedesca e in piccola parte anche cinese: nei cromosomi di uno così ci dev’essere qualcosa di spontaneamente instabile.

Infatti è stato Demian ad avere l’idea: «Quando l’ho conosciuto mi ha parlato subito del suo desiderio di fare un viaggio del genere, da solo. È rimasto nel cassetto per anni, finché mi ha convinto ad andare anch’io».

Giulia e Damian sono un po’ un’icona di questa settima edizione de Il Grande sentiero, per il quale sono a Bergamo stasera, alle 21,15 all’Auditorium di piazza della Libertà: hanno intitolato il resoconto di questo loro quasi incredibile viaggio prendendo a prestito un verso da «The Song of the Open Road» di Walt Whitman: «I inhale great draughts of space», che in italiano sarebbe qualcosa tipo «inspiro grandi sorsate di spazio». Hanno portato tante foto, tre filmatini e soprattutto sensazioni, esperienze da raccontare (dopo l’incontro è previsto un buffet a cura del Seminario permanente Veronelli).

Da Londra sono partiti, in realtà, senza una rotta precisa, «abbiamo preso la strada che conduce a Oriente. Senza intenti sportivi né competitivi». E hanno incontrato popoli di ogni genere: «Dai curdi ai turkmeni, dai pamiri agli uiguri, dai tibetani agli han. Abbiamo seguito tracciati carichi di storia, come il corso del Danubio, la Via della seta, l’antica Via cinese del tè e dei cavalli...». Lasciandosi alle spalle giorno dopo giorno il mondo civilizzato in direzione di quello arcaico, spingendosi, lentamente ma inesorabilmente, verso le incomodità in cui vive gran parte dell’umanità. E prendendo nota di quello strano, meraviglioso pianeta che si squadernava davanti ai loro occhi di viaggiatori non aerei.

Scusi se glielo chiedo, Giulia: lei lavora? «Sì, in ambito cinematografico: mi occupo di film festival. Damian è un ingegnere. A un certo punto c’è stata l’occasione per entrambi di poter lasciare il lavoro per alcuni mesi, avevamo soldi sufficienti e siamo partiti».

Cosa volevate fare? «Attraversare il mondo in un modo lento, che ci permettesse di vedere le persone, di conoscerle non come turisti ma entrando un poco nella loro vita. Volevamo fare un’esperienza diversa anche dal punto di vista umano».

Avete tenuto un diario? «Abbiamo preso molte note, che sono ancora nei nostri taccuini: osservazioni, considerazioni, racconti che abbiamo sentito… Particolari di vita quotidiana della gente che incontravamo, che non avremmo mai conosciuto senza questo viaggio terra-terra: sono cose che non escono nelle news, e però sono interessanti anche dal punto di vista storico e politico. Ogni giorno facevamo delle interviste con la telecamera, e abbiamo montato dei piccoli video: non è un vero documentario ma un grande panorama di popoli. A tutti facevamo le stesse domande: solo che mano a mano che ci si muove verso Est le risposte cambiano».

Come facevate a comunicare? «In Europa è stato abbastanza semplice, io parlo anche francese, la prima tappa è andata via liscia; passati in Germania abbiamo iniziato con l’inglese, ma anche di tedesco qualcosa capivamo. Inoltrandoci nell’Europa dell’Est, invece, diventava sempre più difficile. Finché, procedendo per tentativi, abbiamo sviluppato un nuovo sistema di comunicazione, che è diventato la nostra lingua, impostata sui bisogni primari: dove trovare l’acqua, dove comprare cibo, dove poter dormire… La prima cosa era imparare le parole chiave di qualsiasi lingua locale, abbiamo riempito i taccuini di vocabolarietti, ma ci si intende anche a gesti. Siamo stati sempre più a contatto con la gente, ci invitavano nelle loro case, ci insegnavano le cose, spesso i bambini, che erano i più entusiasti di vederci. Anche le fotografie ci hanno aiutato. Ne avevo sempre con me una di Bergamo, e una della nostra casa di Londra e facevamo vedere da dove venivamo: in Uzbekistan, in mezzo a un deserto, in una casa di fango per quella gente vedere l’Europa - non hanno internet - era una cosa molto esotica, guardavano queste foto come se fossero immagini di altri pianeti».

Giusto perché andavate molto lenti potevate tentare di imparare i rudimenti della vita di così tanti popoli... «Esatto. E man mano che avanzi, porti con te un pacchetto sempre maggiore di conoscenze che hai accumulato. In Bulgaria ad esempio io ho imparato un po’ a leggere l’alfabeto cirillico, che poi nei Paesi dell’Asia centrale è stato fondamentale, perché lì sono stati dominati dal’Urss e i cartelli sono ancora scritti in russo. In Turchia abbiamo imparato delle parole che sono le radici di lingue usate in tutta quell’area, ad esempio in Turkmenistan. Il passaggio graduale è stato utilissimo».

Avete visto lingue e costumi cambiare chilometro dopo chilometro... «Come i paesaggi: tutto cambia, viaggiando così, in modo talmente lento che diventi parte tu stesso di quello che vedi».

Avete vissuto qualche momento difficile, pericoloso? «Pericoli no. Forse siamo stati fortunati, ci hanno raccontato tante storie di corruzione, turisti che hanno dovuto pagare per riavere indietro il passaporto… A noi non è mai successo niente. Solo una volta in Turchia hanno cercato di imbrogliarci dei finti poliziotti, ma basta stare un po’ attenti. Io ero spaventata più all’inizio del viaggio, in Europa: non avevo mai piantato la tenda in un parco per dormire, poi è diventata la nostra routine quotidiana. La cosa divertente è che in ogni Paese ci avvisavano che il Paese successivo sarebbe stato molto pericoloso, i tedeschi ci sconsigliavano di piantare la tenda in Ungheria, in Ungheria ci dicevano di non farlo in Serbia: avremmo corso rischi tremendi. È stato tutto un climax, un crescendo fino alla Romania, che dipingevano come un Paese orribile: in realtà è stato fantastico, ci hanno accolto benissimo, al nostro ingresso in città si presentava il sindaco e ci faceva vedere lui in persona dove sistemare la tenda. Alla mattina trovavamo fuori le verdure che i contadini ci avevano portato in regalo».

Quindi il mondo, visto dal basso, è più bello di quello che si pensa. «Molto più bello, sì. Per non parlare poi dell’Asia e dei Paesi musulmani. Appena abbiamo comunicato alle nostre famiglie che la nostra rotta era cambiata, che saremmo passati per l’Iran, o ancora peggio l’Afghanistan, avevano paura: da fuori può sembrare pericoloso, ma percorrere la frontiera tra Tagikistan e Afghanistan è stata la cosa più bella che abbiamo fatto».

Qual è stato l’aspetto più bello di questo viaggio? «L’incontro le persone, con le famiglie. Riuscire a instaurare una comunicazione - verbale e non verbale - con gente così diversa è emozionante, mi ha arricchito. E poi i paesaggi dell’Asia centrale sono magici: percorrere la Via della Seta, vedere caravanserragli di secoli fa e questi paesaggi quasi spaziali… In alcuni momenti sembrava di essere sulla Luna. Spesso la gente che s’incontra quei posti remoti è quella più interessante, almeno per noi, perché è completamente diversa da quello che conosciamo. E i nostri stereotipi cadono. Noi guardiamo i mondo con un occhio distorto da tutto quel che ci arriva attraverso l’informazione, i media, quando sei a diretto contatto con le persone le cose sono molto diverse».

Avete avuto delle difficoltà fisiche a stare in sella otto mesi? «Fatica sì, io soprattutto. Il primo mese il corpo cambia, anche andando pianissimo quella è un tipo di pedalata continua a cui non siamo abituati. Siamo partiti non allenati, non so neppure perché: del resto non avremmo avuto neanche il tempo di prepararci. Abbiamo chiuso la nostra casa di Londra, messo le nostre cose in un magazzino, abbiamo consegnato le chiavi al nuovo inquilino e il giorno stesso siamo partiti: verso l’ignoto. Io continuavo a piangere: “Ma cosa stiamo facendo?”, mi chiedevo. Adesso ripartirei domani».

Quanti chilometri al giorno facevate? «Una volta in Cina 130: è stato il massimo in assoluto - anche se per dei veri ciclisti credo che non siano molti. Ma lì avevamo fretta, avevamo l’aereo prenotato per il rientro e le ultime settimane abbiamo dovuto correre. All’inizio eravamo lentissimi, alcuni giorni facevamo 20 chilometri. Non volevamo perdere nessuna possibilità, se al bivio c’era un monastero che ci interessava ci andavamo. Eravamo diretti verso la Bulgaria, all’incrocio troviamo un cartello con su scritto: “Grecia”. Ci guardiamo negli occhi: “Grecia?”. E si va in Grecia».

Che contatti avevate? «Abbiamo aperto un blog, dove caricavamo soprattutto foto; amici e parenti ci seguivano, ma in quelle terre sei quasi sempre senza campo, la batteria del telefono si scarica...».

Cosa vi siete portati dietro? «Prima di tutto pezzi di ricambio per le bici: usciti dall’Europa non li vede più nessuno. Un fornellino da viaggio leggerissimo, senza del quale saremmo probabilmente morti; un materassino comodo, un sacco a pelo caldo a sufficienza per dormire a -20°. Poi, fondamentale, una sorta di luce a raggi Uv che depura l’acqua dai batteri, così abbiamo potuto bere da ruscelli e anche da pozzanghere...».

Dove le avete imparate queste cose? «Per strada, si incontrano tanti ciclisti che ti danno consigli. E Damian prima di partire aveva letto molti blog di viaggiatori».

Non eravate i soli all’avventura. «C’è in giro tanta gente che viaggia in bici, dai 25 anni fino a un americano di 86 che stava attraversando tutta la Germania. Nel mondo ci sono questi viaggiatori pazzi completi. Ma anche famiglie. Ne ricordo una francese, padre, madre e quattro bambini, ognuno con la sua bicicletta e le sue borsine: li hanno ritirati dalla scuola per un anno e la mamma la sera, dopo aver pedalato tutto il giorno, in tenda faceva loro lezione. Ma erano già diventati dei piccoli geni rispetto ai loro compagni, parlavano quattro lingue, dormivano nei deserti, giocavano con bambini di altre culture che venivano a cercarli...».

Noi vecchi europei ce lo siamo dimenticati, ma i bambini sono fondamentali nelle società umane. «Assolutamente. Hanno meno barriere di noi, non hanno freni inibitori: sono i primi che si interessano a te, curiosi di conoscere questo essere che spunta all’improvviso nella loro vita».

Quanto è costato questo viaggio? «Pochissimo, escluso il volo di ritorno, 3.500 euro a testa, per vivere otto mesi. Quasi tutti spesi in visti alle frontiere. Dormivamo in tenda, cucinavamo cibo comprato dai contadini, quando non ce lo offrivano: spesa zero».

Quali sono i paesi più ospitali? «L’Iran in assoluto. Poi la Turchia. Ci fermavano per strada mentre stavamo pedalando e ci dicevano: “Vieni a casa mia, devi essere mio ospite”. All’inizio non sapevamo come rispondere. Poi abbiamo imparato a dire di sì a tutto. Perché abbiamo capito che è da questi incontri che emergono le cose più interessanti. Mai avrei pensato che l’Iran fosse un Paese così cordiale. Da noi un’ospitalità del genere non esiste, è persino scioccante. Invece in Europa il Paese più ospitale è la Serbia».

I più «cattivi» del mondo sono in realtà più buoni? «Sì è vero. O meglio: quelli i cui governi sono più cattivi».

Giulia, qual è il suo bilancio personale di questa avventura? «Siamo partiti con l’idea che al ritorno sarebbe stato più chiaro il senso della nostra vita e invece no, sei soltanto più ricco, ma non hai idee più sicure sul tuo futuro personale. Oggi io penso che essermi fatta convincere a questa piccola impresa sia stata la scelta più bella che potessi fare. Il problema è che poi ti viene voglia di vivere sempre così, o almeno di vivere in un altro luogo meno europeo. Quando siamo tornati abbiamo considerato seriamente di cercare casa in Cina o da qualche altra parte, anche solo nel Caucaso, in Georgia, in Armenia... L’ideale sarebbe poter stare due anni in ognuno di questi Paesi, la conoscenza di altre culture ti rende molto più ricco, molto più consapevole, aperto... E molto più buono con la gente».

Che effetto le ha fatto tornare a Londra? «Un incubo. Io e Damian ci guardavamo e ci chiedevamo: cosa stiamo facendo? Perché siamo qui?».

Non avevate più neppure una casa? «Siamo stati sui divani di amici per un po’. Siamo venuti a Bergamo due mesi, poi in Australia per rivedere le nostre famiglie e per decidere che cosa fare delle nostre vite. Alla fine ci siamo detti che i nostri amici sono a Londra, i nostri contatti di lavoro pure: è più semplice ricominciare da lì. E piano piano siamo rientrati nella routine. Anche se abbiamo cambiato casa, lavoro, zona in cui viviamo... E non sappiamo ancora se ci rimarremo. Il problema di questo viaggio che si rimane un po’ nomadi».

Non avete pensato di scrivere un libro? «Non lo so, di libri ce ne sono talmente tanti... Non abbiamo cose da raccontare così originali... È stato un viaggio più personale. Forse si potrebbe fare un libro di immagini, un catalogo che contenga qualche nostro scritto».

Carlo Dignola

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