l’Unione Europea
non si fa negli uffici

Dopo giorni di assordante silenzio, e dopo molte ore di nascondino rispetto alle violenze consumatesi a Barcellona, l’Unione europea ha battuto un colpo sul travaglio della Spagna e della Catalogna. Ed è stato, ovviamente, un colpo a favore del governo centrale di Madrid. Nessuna speranza per la «mediazione internazionale» chiesta da Carles Puigdemont, presidente della Comunità autonoma di Catalogna, al contrario piena fiducia nell’operato del premier spagnolo Mariano Rajoy. Non solo: il referendum catalano è irricevibile perché «illegale» e l’intera questione resta «un affare interno della Spagna». Ai catalani un contentino sotto forma di un appello a evitare l’uso della forza e un invito a passare dallo scontro al dialogo.

Non poteva andare diversamente. I vertici dell’Unione europea, che già hanno subito la Brexit e devono ogni giorno gestire le tendenze anarchiche dei Paesi dell’ex Est europeo, non possono incentivare tendenze centrifughe che aggraverebbero la situazione degli Stati membri e creerebbero ulteriori turbative a livello continentale. In Spagna non c’è solo la Catalogna ma anche i Paesi Baschi. In Belgio ci sono le Fiandre, in Italia la Lombardia e il Veneto come ipotetica Padania. Se il Regno Unito fosse ancora dei nostri ecco pronta la Scozia. E il Kosovo è sempre lì a ostacolare le ambizioni europee della Serbia.

Detto questo, la Ue ancora una volta ha brillato per l’assenza. Nessuno dei suoi dirigenti, men che meno Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, ha voluto metterci la faccia dopo che il pasticcio era scoppiato. Ma soprattutto nessuno da Bruxelles si è fatto vivo prima, quando un discreto intervento e un po’ di «moral suasion» avrebbero potuto stemperare un po’ di tensioni, rasserenare qualche animo e magari evitare uno scontro così duro e dalle conseguenze imprevedibili.Perché il vero problema, adesso, è che Madrid e Barcellona, Rajoy e Puigdemont sono costretti a vincere per non perdere tutto. Il governo centrale deve domare i catalani per non incentivare altri separatismi, primo fra tutti quello dei Paesi Baschi ai quali nel 2012 concesse un trattato fiscale negato alla Catalogna. A sua volta, la Comunità autonoma di Catalogna deve portare a casa qualcosa in più di quanto aveva fino a una settimana fa, per non vedersi costretta ad archiviare per sempre il sentimento e il movimento indipendentista.

Non bisognava arrivare a questo punto, ovviamente, ma ci si è arrivati. Lungo il percorso, tuttavia, una maggiore vicinanza dell’Europa alla sorte degli spagnoli sarebbe stata almeno opportuna, se non benefica. E non a caso diciamo spagnoli e non Spagna. Quello che importa, qui e ora, non è la filosofia ma il concreto benessere di milioni di famiglie di cittadini europei. Per il periodo 2014-2020 la Ue ha varato un programma che s’intitola «L’Europa per i cittadini», inteso ad avvicinare le persone alle istituzioni. Un’ottima idea. Che non funzionerà, però, se al posto di farsi avvicinare l’Europa continua a spostarsi, a schivare, in definitiva ad allontanarsi quando quei cittadini devono affrontare un problema serio e complicato. È successo fin troppo spesso, negli ultimi tempi. Non avremmo voluto che fosse anche il caso di un popolo che ha dato tanto al continente ma che ha alle spalle le memorie di una crudele guerra civile e di fronte, oggi, altri spunti di divisione. C’è una questione più europea di questa? O a fare l’Europa bastano i proclami di Macron e qualche inutile tirata sui populismi? La Spagna e la Catalogna ce lo insegnano: l’Unione si fa nelle strade, non negli uffici. E la disunione anche.

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