Salvato il bimbo dal cuore grande
dopo un anno vissuto in ospedale

Al «Papa Giovanni» l’attenzione costante al piccolo che a Matera è atteso da tre fratelli e una sorellina.

Ha il viso tondo e un sorriso dolce Ayrton Ethan: ha 15 mesi e non ricorda com’è casa sua perché da oltre anno vive in una stanza dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, in attesa di un cuore nuovo: come nelle più belle fiabe, però, il suo desiderio è stato esaudito.

Nascere una seconda volta non è facile, soprattutto dopo così tante fatiche, ci vorrà tempo perché possa riprendersi del tutto. Per mesi le sue giornate sono state scandite dal ritmo regolare del cuore artificiale che gli ha permesso di sopravvivere, il «Berlin Hearth». Porta il nome di un grande corridore di Formula Uno, e ha dimostrato la stessa grinta: sono tanti gli ostacoli che ha superato, ribaltando i pronostici negativi, fino al momento felice del trapianto. Nunzia Cirelli, la sua «super-mamma» (come l’hanno ribattezzata le volontarie della Cardiochirurgia pediatrica) gli è sempre rimasta accanto.

Il lungo soggiorno in ospedale e il faticoso allenamento alla pazienza e alla speranza hanno messo alla prova molte volte Nunzia e la sua famiglia, facendo comprendere loro profondamente il valore del dono: «Non se ne parla mai abbastanza, la gente non ha informazioni sufficienti sulla donazione degli organi. Forse se tutti sapessero quanta difficoltà e dolore ci sono nei reparti che ospitano le persone in attesa di un trapianto, capirebbero meglio l’importanza di informarsi e di firmare il consenso. C’è stato un momento, nella nostra storia, in cui ero convinta di aver perso mio figlio ed ero pronta a donare tutti i suoi organi - a parte il cuore, ovviamente - per salvare la vita di altri bambini. Sono infinitamente grata a quei genitori che in un momento di profondo dolore hanno detto di sì e hanno offerto ad Ayrton la possibilità di guarire. Nella lunga notte dell’intervento ho pensato molto a loro, ho pianto, li porterò con me per sempre».

Nunzia e Ayrton vengono dalla provincia di Matera: quello appena passato è il secondo Natale che la loro famiglia ha trascorso in ospedale. Nella stanza che li ospita c’è davvero aria di casa, con tanti disegni e pensieri dei quattro fratelli di Ayrton, tre maschi e una femmina, che hanno 17, 15, 13 e 4 anni e mezzo. «I primi tre – spiega la mamma – li ho avuti a distanza ravvicinata, perché tenevo molto che crescessero insieme, gli ultimi due sono arrivati qualche anno dopo». Il papà e gli altri figli sono in contatto quotidiano con l’ospedale e durante le vacanze scolastiche vengono a Bergamo per passare del tempo con Nunzia e Ayrton.

«Alla nascita – racconta Nunzia – Ayrton non mostrava alcuna anomalia, il suo cuore era apparentemente perfetto. Cresceva bene, in due mesi il suo peso era aumentato di due chili, l’altezza di dieci centimetri e non mi aveva dato preoccupazioni. Poi, da un giorno all’altro, all’improvviso, ha smesso di urinare. Ho pensato a un’infezione, non riuscivo a capire che cosa gli fosse successo, perciò l’ho portato all’ospedale. Lo allattavo e fino a quel momento non si era mai ammalato. Al pronto soccorso i pediatri si sono accorti che il battito del cuore era troppo rapido, 240 battiti il minuto, e hanno deciso di fargli una radiografia al torace. La dottoressa ha inserito nel computer il cd per analizzare l’esito e si è girata verso di me con aria stupita: mi ha detto che Ayrton aveva un cuore enorme. Mi è crollato il mondo addosso, non riuscivo a capacitarmi di che cosa stesse accadendo. Il cardiologo ci ha suggerito di trasferire d’urgenza il bambino all’ospedale di Bari, più attrezzato, perché il suo cuore funzionava al 20%. È successo tutto così in fretta, non sapevamo cosa dire, come reagire. Mio marito ha avuto un attacco di panico, non riusciva nemmeno a guidare. Ci hanno caricato su un’ambulanza per portarci all’ospedale di Bari, nel reparto di cardiologia, e da allora non sono più tornata a casa. Era il 15 dicembre del 2017».

Nunzia finora ha sempre lavorato, prima come istruttrice di nuoto per disabili e in seguito come segretaria d’azienda, negli ultimi anni ha aiutato suo marito nella sua attività, ma da quel momento in poi ha dovuto dedicarsi ad Ayrton a tempo pieno. La loro vita è stata sconvolta all’improvviso, come rovesciata da una tempesta di vento, che li ha sollevati e lasciati in sospeso, avvolti in una nuvola.

«A Bari – racconta – hanno eseguito altri esami, poi ci hanno informato che nostro figlio aveva una cardiomiopatia dilatativa congenita, e che il trapianto era l’unica soluzione possibile. Siamo rimasti senza parole, perché speravamo ancora che Ayrton Ethan avesse solo un’infezione, che si potesse in qualche modo curare». È stato molto difficile mandare giù questa notizia, capire che non c’era nient’altro da fare. «Ci hanno prospettato il trasferimento in uno dei due centri che in Italia si occupano di trapianti cardiaci pediatrici: il Bambin Gesù a Roma oppure l’ospedale Papa Giovanni XXIII, e abbiamo scelto di venire a Bergamo. Abbiamo preso contatto con il direttore della cardiochirurgia, il dottor Lorenzo Galletti. Sono venuti a prenderci con un aereo militare, ci hanno scortato fino a destinazione con un’ambulanza e la polizia. Li guardavo con gli occhi sgranati, perché non mi ero resa ancora conto fino in fondo della gravità della situazione, per me era tutto un incubo. Non mi sono nemmeno preparata la valigia, e non sono più passata da casa. Mia figlia stava male, perché pensava che l’avessi abbandonata».

A Bergamo Nunzia e Ayrton hanno ritrovato la speranza: «L’ospedale ci è sembrato molto moderno, accogliente, efficiente. Nella vita mi sono dovuta adeguare a tante situazioni difficili; anche in questo caso ci siamo adattati e l’abbiamo fatto bene. Mio marito ha avuto la parte più difficile, si è occupato degli altri figli e ha continuato comunque a lavorare: per un paio di mesi è rimasto con me per aiutarmi a gestire la nuova situazione, poi però è tornato indietro per continuare con la sua attività, altrimenti non saremmo riusciti a sostenere tutte le spese, il vitto e l’alloggio per me. È stato davvero tremendo all’inizio, perché non avevamo nessuno che ci aiutasse. Le mamme hanno risorse insospettabili, per i figli sono pronte a tutto. Gli altri figli vengono a trovarmi durante le vacanze e per questo mi considero molto fortunata, ci sono pazienti in questo reparto che arrivano anche dall’estero e sono completamente soli, lontani da tutto. Abbiamo dovuto affittare un’altra casa, perché le associazioni che ospitano le famiglie dei degenti non possono accogliere tutti i miei figli, solo una o due persone al massimo. Dobbiamo fare molti sacrifici ma cerchiamo di tenere duro».

© RIPRODUZIONE RISERVATA