Vincere la paura del cancro
Su Facebook un gruppo di aiuto

Il gruppo «Ricominciare a vivere, durante e dopo il cancro» è nato su iniziativa della dottoressa Antonella Goisis (Hospice Palazzolo). Hanno aderito 163 malati o ex. «Antidoto alla solitudine».

È iniziato tutto da un mail contenente un invito tanto delicato quanto profondo: parlare di cancro. Un messaggio digitale per affrontare il tema in un modo nuovo, sui social network. «Perché anche le nuove tecnologie possono aiutare a confrontarci, consentendo di superare l’arcipelago della solitudine che si crea quando viene diagnosticato un tumore e ognuno è un’isola perché medici, infermieri, pazienti e familiari spesso restano soli, nel silenzio, per paura di parlare, tutto avvolto da un gran dolore», spiega Antonella Goisis, che da 30 anni vive ogni giorno a contatto con la morte, prima come oncologo, oggi come medico dell’Hospice della casa di cura «Beato Palazzolo» di Bergamo.

È lei la promotrice del gruppo di Facebook «Ricominciare a vivere, durante e dopo il cancro» nel quale sono presenti varie persone, oggi 163, che a vario modo sono o sono state interessate dalla malattia: «Cari amici, da un po’ di tempo accarezzavo l’idea di creare un gruppo di persone con le quali vincere la paura del cancro, mettendo in comune esperienze, riflessioni, dubbi, timori, al fine di cercare, insieme, di ricominciare a vivere non solo dopo un’esperienza devastante, ma anche durante l’esperienza stessa, per trasformare una tragedia in un’occasione di crescita per noi stessi e per gli altri». A seguito della creazione del gruppo grazie a queste parole del medico, l’ambiente online si è dimostrato fin da subito un luogo di confronto prezioso, soprattutto quando Goisis ha proposto una domanda, enorme dilemma quando si tratta di cancro: dire o non dire a verità a un malato, parlare o non parlare al familiare o al paziente in fase terminale di ciò che gli sta succedendo?

Le risposte si sono dimostrate diverse, tutte sentite e con un comune denominatore, il rispetto del dolore, della vita, del paziente. Silvia Tiraboschi, ad esempio, ha evidenziato l’essenzialità, prima del parlare, dell’ascoltare aggiungendo: «Non mi è capitato di avere a che fare con chi non sapesse, ma con chi preferiva che ci fosse un certo “pudore” nell’affrontare il discorso con la famiglia. Quando i familiari non erano presenti la comunicazione cambiava immediatamente livello». Lucia Perdicchia, che ha vissuto sulla propria pelle la malattia, dice: «Io ho preferito sapere tutto e subito e il medico che me lo ha comunicato é stato molto diretto, anche se poi si é scusato della “brutalità” (come aveva detto lui), ma io l’ho apprezzata».

A Marina Belloli è capitato per ben due volte di aver a che fare con il tumore: «Quando ti diagnosticano il cancro, tu vuoi sentirti dire che guarirai e non sempre ciò è possibile! Io ho sempre detto che non avrei voluto sapere ma ahimè, lavorando in ospedale, mi hanno parlato chiaro e sono stata io a comunicarlo ai miei parenti! Sapevo perfettamente quello che mi aspettava, tutti i malati di cancro sanno, alcuni ne parlano con consapevolezza, altri fingono per paura e io credo che un medico debba studiare il singolo paziente e trovare il modo di trasmettere speranza».

Nicoletta Paleni ha sottolineato la variabile rappresentata dall’interessato: «La verità è senza dubbio la cosa giusta. Il problema penso sia nel come ogni singola persona riesce a elaborare e a reagire nell’apprendere la gravità della malattia». Nadia Leoni e Feliciana Vanchieri distinguono anche tra giovani e anziani, per i primi pensiamo siamo importante dire tutto subito, «se è un anziano no, o meglio non subito ma piano piano, anche perché se il paziente non guarisce capisce da solo». Raffaella Pollio ha risposto che «Saperlo spaventa e fa paura... Ma credo che sia la cosa più giusta», JokeWillighagen-Stuijt che l’importante è che i cari restino vicini, secondo Blandina Tagliarini Steiner per capire il da fare basta guardare il comportamento del malato: «Penso che se una persona vuole realmente conoscere la verità sul proprio stato di salute fa domande esplicite alle quali bisogna rispondere chiaramente. Se le domande non arrivano, penso che la persona preferisca non sapere. Non credo che la verità sia sempre necessaria».

Risposte sempre cariche di amore e sensibilità apprezzate da Goisis soprattutto per la schiettezza: «È sicuramente una domanda importante e complessa che, prima o poi, nella vita, può capitare di doverci porre – ha replicato ai tantissimi messaggi - vi propongo non la mia risposta, ma quella di Cicely Saunders, fondatrice del movimento Hospice, alla quale mi ispiro ogni giorno, e che ho ritrovato anche nelle vostre riflessioni: “Non esiste una verità assoluta, dobbiamo consentire al malato di giungere alla sua verità: quella che riesce a tollerare”». Questo, continua Goisis, significa «sostenerlo nelle sue scelte, facendo sì che la vicenda malattia-morte, diventi davvero la sua vicenda, vissuta in prima persona (e non subita) nella misura in cui egli lo desideri o lo voglia, dargli la possibilità più grande: quella di continuare a essere se stesso sino all’ultimo, garantirgli l’assistenza nel proprio essere specifico di fronte alla morte imminente. Rimanere con lui, a dispetto del disagio profondo che il dolore e la sofferenza dell’altro provocano in noi».

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