La crisi del sistema
politico americano

L’intervista a Marco Magnani, economista a Harvard: «Partito repubblicano alla deriva. La società spaccata». «Gli errori dei democratici: non sono stati in grado di generare energia, dinamismo e nuove classi dirigenti».

«Anche il secondo dibattito televisivo fra Trump e la Clinton ha confermato una campagna elettorale ad elevato tasso di litigiosità e dimostrato la deriva del Partito repubblicano, che ha un candidato dal quale non si sente rappresentato. La crisi, tuttavia, è di tutto il sistema politico americano in quanto, benché non così dirompente, tocca pure i democratici che non hanno saputo esprimere un volto nuovo». Economista a Harvard e alla Luiss a Roma, oltre che analista dell’Istituto affari internazionali, Marco Magnani guarda al voto di novembre con un misto di disincanto e preoccupazione.

Gli scandali stanno dominando il dibattito elettorale.

«Si è sempre detto che gli americani votano con il portafogli e lo sarà anche stavolta. Ma subito dopo in scala gerarchica, invece dei diritti civili come fino a qualche tempo fa, arrivano gli attacchi personali senza pietà, perché ognuno dei due ha qualcosa da farsi perdonare. È un brutto spettacolo e lo si è visto anche in tv: le frasi sessiste del tycoon, le offese alle minoranze e, per Hillary, le mail private, la scarsa trasparenza, gli scandali del marito. I due, del resto, si sono stretti la mano soltanto alla fine. Sul piano della comunicazione mi sembra che Trump abbia fatto meglio rispetto al primo match dove aveva chiaramente perso. Il fatto però che sulla Siria abbia sconfessato il candidato vice presidente, Mike Pence, enfatizza ulteriormente la scarsa sintonia di Trump con il partito repubblicano».

Perché lei parla di crisi del sistema politico statunitense?

«Perché riguarda anche il partito democratico, che apparentemente è unito dietro Hillary, ma in realtà è profondamente diviso. Un punto debole della Clinton è il suo carattere divisivo: una parte del Paese la ama, un’altra la detesta. C’è una fascia giovane e liberal in linea con Bernie Sanders, che non è detto vada a votare. Alla fine di una lunga selezione interna, il meglio che il partito ha saputo produrre è un candidato certo preparato ed esperto, ma non si può dire sia un esempio di nuova leadership, visto che Hillary è in posizioni di potere da oltre 30 anni. I democratici non sono stati in grado di generare energia, dinamismo, nuove classi dirigenti. È una crisi generale che riscontriamo anche nei principali Paesi europei: non ci sono più i leader di una volta».

La società americana esce spaccata.

«Assolutamente sì. Queste elezioni sono la fotografia di una situazione che s’è creata negli ultimi 10-15 anni. Mai come negli 8 anni di presidenza Obama la politica è stata così radicalmente antagonista: l’azione politica è stata paralizzata per la crescente litigiosità fra i partiti e per i contrasti tra presidente e Congresso. Non a caso negli ultimi anni il capo della Casa Bianca ha fatto varie volte ricorso a decreti. Una spettacolare polarizzazione non solo politica, ma economica con l’aumento delle disuguaglianze e del gap tra classi sociali. I due partiti in passato collaboravano sui grandi temi, ora si parlano a stento e producono candidati più estremi che centristi. Bisogna poi sottolineare un altro dato: negli ultimi 15 anni s’è sviluppato tra gli americani un senso d’incertezza che genera frustrazione, talvolta paura o addirittura angoscia. Gli episodi di terrorismo e la crisi economica hanno contribuito a diffondere questa sensazione. Anche i numerosi e rapidi cambiamenti sociali della società hanno determinato un senso di smarrimento. Questioni delicate come aborto, diritti degli omosessuali, matrimonio gay, liberalizzazione delle droghe leggere hanno creato forti contrasti. Come spesso accade, le élite hanno accettato con relativa facilità - e anzi spesso promosso – questi cambiamenti, mentre una parte della base del Paese fatica ad accettarli. Ciò ha aumentato ulteriormente la distanza fra élite e cittadini».

Eppure l’economia va bene.

«La ripresa è più solida rispetto all’Europa, ma ci sono ancora molte fragilità. Un anno fa il recupero era molto incoraggiante, tanto che significativi rialzi di tassi da parte della Federal Reserve sembravano imminenti. In realtà, dopo 12 mesi i tassi d’interesse sono aumentati soltanto una volta, e di solo un quarto di punto. Inoltre, anche se il tasso di crescita è discreto, assistiamo ad una crescente polarizzazione. Da una parte aree ricchissime come Silicon Valley, dall’altra città e territori in profondo declino come Detroit e il distretto dell’automobile».

Però potremmo essere alla fine della fase espansiva della politica monetaria.

«Gli ultimi rinvii dei rialzi sono stati influenzati, almeno in parte, anche dall’anno elettorale. Molti analisti ritengono che tra fine anno e inizio 2017 i tassi aumenteranno. L’eurozona, già da oltre un anno, spera in questa prospettiva, perché significherebbe che l’economia americana s’è rimessa in carreggiata con benefici anche per noi. Una politica più restrittiva della Fed combinata con i bassi tassi della Bce di Draghi porterebbe ad un rafforzamento del dollaro nei confronti dell’euro e quindi ad un miglioramento dell’export dell’eurozona».

Nel frattempo c’è aria di protezionismo.

«È il cavallo di battaglia d Trump che ribalta la tradizionale linea “free trade” dell’America e dei repubblicani in particolare. Lui attacca in modo frontale soprattutto il Nafta, l’accordo siglato negli anni ’90 da Bill Clinton con Canada e Messico. Trump, inoltre, ha demolito il Trattato di libero scambio con l’Europa, il Ttip, che peraltro è stato archiviato in attesa del nuovo inquilino della Casa Bianca. Tutto questo ha avuto un impatto favorevole sulla working class, un importante bacino elettorale per l’uomo d’affari. La stessa Clinton è stata costretta ad inseguire l’avversario su queste posizioni per non perdere consensi».

Che tipo di eredità lascia Obama?

«Sul piano economico, di certo l’uscita dalla crisi, anche se - come ho detto - la crescita rimane fragile. Per il resto il lascito del presidente è complicato da interpretare e lo è proprio per la natura dei tempi. Il mondo attuale è caratterizzato da complessità, incertezza e volatilità, sia in economia che in politica estera. Basti ricordare l’incognita del terrorismo, le aree di profonda instabilità come Siria, Iraq, Libia, alcune potenze regionali- come Iran, Arabia Saudita, Turchia - con ambizioni in passato impensabili, le fortissime tensioni nel Pacifico con una Cina sempre più aggressiva, un’Europa divisa che fatica ad essere un alleato ad una sola voce e ora per giunta senza l’Inghilterra. Un’eredità molto difficile, non necessariamente e soltanto per responsabilità di Obama, che ha fatto cose buone e altre meno, ma proprio per la complessità dei tempi nostri».

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