Claudio Bisio al Teatro Donizetti: la vita di un boomer raccontata come un quadro di Pollock

Teatro Donizetti Claudio Bisio si cala (fino in fondo) in un racconto di Francesco Piccolo che descrive la sua generazione: Carosello, la politica, i problemi con i figli.

«Sono felice, non vedo l’ora di arrivare a Bergamo». È un Claudio Bisio scoppiettante quello che si prepara a salire sul palco del Teatro Donizetti: l’attore milanese sarà a Bergamo venerdì 4 marzo e sabato 5 (ore 20.30) con il primo dei tre «eventi speciali» voluti da Maria Grazia Panigada, direttrice artistica della Stagione di prosa e Altri percorsi della Fondazione Teatro Donizetti, per celebrare la riapertura dello stesso teatro dopo i lavori di restauro.

Bisio è il protagonista di «La mia vita raccontata male»; regia di Giorgio Gallione; musiche di Paolo Silvestri; luci di Aldo Mantovani; scene e costumi di Guido Fiorato. In scena, accanto a lui due musicisti, Marco Bianchi e Pietro Guarracino . Prodotto dal Teatro Nazionale di Genova, lo spettacolo è «un po’ romanzo di formazione, un po’ biografia divertita e pensosa, un po’ catalogo degli inciampi e dell’allegria del vivere»: attinge al patrimonio letterario di Francesco Piccolo, sceneggiatore e autore televisivo, nel tentativo, come dice Bisio, «di attraversare la vita di una persona che assomiglia a me, ovviamente a Piccolo, ma in realtà anche a molti altri».

La sua vita «raccontata male»?

«È un po’ un gioco autoironico e autolesionista, è una citazione di un nostro amico, il fumettista Gipi che ha fatto un bel fumetto intitolato “La mia vita disegnata male” (ovviamente disegnato benissimo). È un gioco che ci siamo divertiti a fare perché abbiamo preso tanti pezzi dai libri di Francesco Piccolo, anche da quelli meno conosciuti, per raccontare una vita: dall’infanzia, ai primi amori alle scuole medie, alla politica negli anni Settanta... La donna giusta, i problemi con i figli... “Raccontata male” perché da un lato non seguiamo un filo cronologico o logico: è un racconto un po’ anarchico, schizzi “alla Pollock”. E poi c’è un altro motivo forse più profondo: raccontiamo anche i lati oscuri di una persona, che in questo caso sono io, perché parlo in prima persona, anche se in realtà le parole sono di Francesco Piccolo. Non è un racconto edulcorato, non ci sono degli omissis, ci sono anche i lati oscuri, oggi si direbbe il “politicamente scorretto”».

Sì, perché – come dite – «ci mettiamo una vita intera a diventare noi stessi».

«E forse non basta. Ma c’è anche un’altra frase molto bella di Francesco Piccolo, un po’ sibillina, che non so se l’ho ancora capita bene, e che dice: “Spesso la vita si vive non come la vuoi tu ma come vuole lei”. Forse vuol dire che capisci troppo tardi cosa è la tua vita, forse lo capiscono i posteri. E anche questa è una vita vissuta “male”: una vita un po’ asimmetrica. Parlo della mia, ma sicuramente nelle vite di tutti spesso ci sono dei salti, delle “sliding doors”... La vita è quella roba lì».

«Spesso la vita si vive non come la vuoi tu ma come vuole lei. Forse vuol dire che capisci troppo tardi cosa è la tua vita, forse lo capiscono i posteri».

Posto che i testi sono di Francesco Piccolo, quanto c’è invece di Claudio Bisio?

«Mi piace pensare che ci sia tanto. I romanzi di Piccolo sono letteratura, il teatro è finzione, per cui si potrebbe dire che è tutto finto, e la cosa non mi stupirebbe. Detto questo, io che lo conosco un po’ so che c’è molto di autobiografico in quello che lui scrive, e confesso che, pur avendole scritte lui, molte cose curiosamente mi appartengono tanto: anagraficamente siamo quasi coetanei, siamo tutti e due nati negli anni del Boom, se ci mettiamo anche il regista dello spettacolo siamo tutti e tre maschi, attorno ai sessant’anni, che quindi si ricordano di Carosello, delle gemelle Kessler... Insomma, quel mondo lì. Poi, per esempio, citiamo i Mondiali di calcio del 1974 dove si sfidarono Germania Ovest e Germania Est. Piccolo racconta che durante quella partita, al 78° minuto, quando Jurgens Sparwasser della Germania dell’Est segnò contro la Germania dell’Ovest lui diventò comunista. Non so se sia vero, a me non è accaduto qualcosa di simile. Io mi ricordo vagamente di quella partita, però quando poi descrive i conflitti con suo padre, che dava per scontato che si dovesse tifare per la Germania Ovest, mi ci riconosco, soprattutto nell’aver parteggiato quasi sempre per i più deboli. Ma a parte questo esempio di quando era ragazzo, quando poi parla dei figli - entrambi, io e Piccolo abbiamo un figlio e una figlia - gli esempi e gli aneddoti mi appartengono molto, compreso il racconto della figlia che è andata a fare volontariato in Sud America. Mia figlia Alice è stata in Indonesia, cosa che apprezzo: la amo molto per questo. Nello spettacolo succede invece che la figlia, di ritorno da quella sua esperienza all’estero propone di ospitare a casa due clandestini: e la reazione del padre non è proprio quella che ci si aspetterebbe da uno che si dichiara di sinistra».

Tra i tanti temi dello spettacolo ci incuriosisce il passaggio da Bertolt Brecht a Mara Venier...

«Quello è un racconto brevissimo, in cui Brecht l’ho messo io. Piccolo in realtà cita una Domenica In di circa vent’anni fa condotta da Mara Venier in cui faceva un gioco che lui definisce come “la semplificazione definitiva di tutti i giochini televisivi”. Oggi per vincere un quiz bisogna almeno indovinare qualcosa, a quel giochino invece bisognava solo rispondere al telefono: ti arrivava una chiamata e, per vincere, bastava non rispondere “pronto” ma “Domenica In”, dimostrando così che stavi guardando il programma. Vincevi anche un sacco di soldi, perché il monte premi aumentava a ogni telefonata mancata. Francesco Piccolo si immagina - anche questo non so se sia accaduto veramente - che un pomeriggio era solo in casa, ha acceso il televisore e in quel momento esatto squillò il suo telefono. Da lì il dubbio: rispondere o non rispondere? In trasmissione nessuno rispondeva alla telefonata, forse Mara stava proprio chiamando il suo numero. E se avesse risposto “Domenica In” e invece a chiamarlo fosse stato un amico o un collega, che figura avrebbe fatto?! Non dico come finisce, ma io quell’episodio lo racconto come se fossi io il protagonista, in prima persona, e dico che quel pomeriggio stavo studiando la parte per un monologo di Bertolt Brecht (cosa che ho fatto veramente quando frequentavo la scuola del Piccolo Teatro), per cui vince Brecht o vince la Mara Venier? Ecco, questo era il dubbio amletico».

Uno spettacolo divertentissimo, ci sembra di capire.

«Direi di sì, con qualche bella riflessione. Tanto che si parla anche di morte, perché anche questa vita, come tutte le vite, finisce».

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