Edoomark: chi fa da sé non fa per tre
L’importanza di «fare insieme»

Abbiamo intervistato Elena Meroni, direttrice di un’azienda sociale che comprende sette comuni. «Per capire che conta il gruppo farei vedere ai ragazzi una scena del film A Beautiful Mind».

«Fare conta, ma collaborare è tutta un’altra storia». Potremmo sintetizzare così il messaggio che si cerca di trasmettere ai ragazzi che ogni settimana passano dal Mediacenter de «L’Eco di Bergamo».

Un modo di dire stretto, per un concetto ampio, collegato a uno dei temi trattati la scorsa settimana, quello della cittadinanza attiva, dove l’attenzione è stata posta proprio sull’aggettivo che la qualifica: attiva. Attiva non tanto come cose da fare, come attivismo, bensì – trattandosi di cittadinanza – di tensione a collaborare, a mettere in relazione e condividere conoscenze e competenze.

Di questo abbiamo parlato con chi ogni giorno gestisce un’impresa, per giunta pubblica, qual è l’Azienda Speciale Consortile Comuni Insieme per lo Sviluppo Sociale, che ha sede a Bollate e ha per soci sette comuni dell’area a nord di Milano, per quasi centocinquantamila abitanti.

« La mia scelta tra una cultura «autarchica», del chi fa da sé fa per tre, e una cultura «sistemica», del fare insieme, non può che andare in questa seconda direzione – spiega Elena Meroni, direttrice di Comuni Insieme -. In particolar modo in una società complessa come è oggi, «bastare a sé stessi» è del tutto illusorio e piuttosto presuntuoso».

Per collaborare a volte è necessario fare un passo indietro?

«In molti anni di esperienza mi è capitato molte volte. Ricordo un caso in cui ero molto convinta di un’idea, che ritenevo al tempo stesso vantaggiosa ed etica, trovando dall’altra parte un clima di sostanziale indecisione da parte di alcuni referenti istituzionali. In quella situazione vi erano due strade: forzare la decisione sottoponendola alla formale votazione, rischiando di creare strascichi e malumori o accantonare la pur bellissima proposta. La scelta di privilegiare il mantenimento di un clima di non contrapposizione è stata prevalente rispetto a far prevalere una giusta idea a costo di un conflitto. Per inciso, la cosa è stata riproposta l’anno dopo, con esito positivo... Molte volte basta saper aspettare».

E un caso in cui avevano ragione gli altri e si è lasciata convincere?

«Personalmente abbastanza spesso mi lascio convincere; pare io abbia una certa attitudine a cambiare idea, credo perché sono sempre disponibile a mettere in discussione la mia. Di solito sono l’orgoglio e la presunzione che rendono difficile cambiare idea: sono difetti che spero di non avere». Una delle sfide educative che ci poniamo quando lavoriamo con i ragazzi delle superiori è far loro comprendere l’importanza di pensare al gruppo prima che al proprio tornaconto personale.

Quali sono secondo lei le parole chiave su cui puntare per essere convincenti?

«Gli farei vedere lo stralcio del film «A beautiful mind» nella parte in cui il professor Nash, ancora studente universitario, spiega ai suoi amici la strategia che diventerà poi la sua «teoria dei giochi» (una teoria economica da Premio Nobel) applicata alla conquista di una giovane biondina. La miglior spiegazione - per dei giovani adolescenti - di come la cooperazione (contrapposta alla competizione) , basandosi sulla rinuncia della prevaricazione dell’interesse individuale, consenta di perseguire l’interesse e il benessere di tutti (e conquistare le ragazze!). Il miglior risultato non si ottiene quando ognuno del gruppo fa ciò che è meglio per sé, bensì quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé e per il gruppo».

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