«Fine pena ora», giovedì 23 settembre lo spettacolo in Città Alta

L’evento organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bergamo e dalla Fondazione Istituti Educativi di Bergamo, in collaborazione con il Centro Servizi per il Volontariato e l’Associazione Carcere e territorio. La prima rappresentazione giovedì 23 settembre alle 21 in Sala Piatti (via S. Salvatore, 11, Città Alta).

Il progetto nasce dalla sinergia tra il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Bergamo, nell’ambito del Public engagement, e la Fondazione istituti educativi di Bergamo, con la collaborazione del CSV – Centro di Servizio per il Volontariato di Bergamo e dell’Associazione Carcere e Territorio Bergamo. Lo spettacolo, che si colloca nel genere della lettura scenica, attua una riduzione drammaturgica del romanzo «Fine pena: ora» di Elvio Fassone . Nel 1985 si celebra a Torino un maxiprocesso alla mafia catanese: Elvio Fassone è Presidente della Corte d’Assise, Salvatore uno dei più pericolosi imputati ed esponente di spicco della cosiddetta «bocca di fuoco». Il giorno dopo la sentenza che condanna Salvatore al carcere a vita (sulla sua scheda personale campeggia la scritta «fine pena: mai»), il giudice Fassone ripensa alla voce dell’imputato quando gli ricordava: «se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia». D’impulso decide di scrivergli una lettera a cui allega un libro. È l’inizio di uno scambio epistolare che durerà per ben 26 anni: «Nemmeno tra due amanti” ammette l’autore, “è possibile uno scambio di lettere così lungo». «Fine pena: ora» non è dunque un’invenzione letteraria ma la rielaborazione di una storia vera.

Non è un saggio sulle carceri. Non enuncia teorie. È’ un avvincente romanzo che riflette su come sia possibile conciliare la domanda della sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena. Inoltre, ci avvicina al percorso umano di un condannato che tenta di redimersi: la sua voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi (anche il teatro) e il lavoro; i suoi momenti di sconforto (soprattutto dovuti alle durissime norme del 41 bis); la sua disperazione e il suo triste epilogo. La voce narrante è quella dello stesso giudice Fassone che nell’arco di tempo del lungo scambio epistolare sarà dapprima eletto al Consiglio Superiore della Magistratura, poi al Senato della Repubblica e, infine, si ritroverà invecchiato e ormai alle soglie della pensione.

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