Sanremo, martedì inizia il Festival
Arbore: «È il nostro carnevale»

«Vado a ritirare un premio, per le benemerenze televisive, bontà loro! E mi farà piacere se Fazio non ricorderà solo “Quelli della notte” o “Indietro tutta”. Ho realizzato quattordici format e il primo talk show della storia della nostra tv».

«Vado a ritirare un premio, per le benemerenze televisive, bontà loro! E mi farà piacere se Fazio non ricorderà solo “Quelli della notte” o “Indietro tutta”. Ho realizzato quattordici format, compreso “Il processo a Sanremo”, con Lino Banfi, e il primo talk show della storia della nostra tv: “Speciale per voi”, con Lucio Battisti, Caterina Caselli, il pubblico in studio. Era il 1969. I ragazzi di allora contestavano, erano irrequieti, anche se non sempre si capiva da che parte stavano».

Sanremo è sempre anche un palcoscenico su cui si riflette in qualche modo la società. Alla sua grande vetrina si sono rivolti ieri anche i promotori della campagna «Riparte il futuro» contro il voto di scambio alle elezioni politiche, che ha già raccolto 380 mila firme. Hanno aderito alcuni cantanti come Antonella Ruggiero, Renzo Rubino, Bianca, Diodato...

Arbore a Sanremo c’è andato in diverse occasioni, anche a cantare e qualcosa del genere farà anche stavolta, almeno per ricordare qualcosa del suo repertorio. «Il Festival, per anzianità, l’ho vissuto da quando è nato» racconta. «Non posso dimenticare che lo ascoltavamo nel lettone dei miei genitori, la radio era sul comodino. Ricordo la voce di Nunzio Filogamo. La magia della radio ti faceva intravedere quel salone delle feste del Casinò di Sanremo pieno di gente, colori. Quando poi l’ho visitato c’è stata un po’ di delusione perché era una piccola saletta accogliente, per un’elite di frequentatori del casinò. Del resto l’Ariston stesso è un teatro normale, abbastanza grande. Ci vado ancora a fare concerti con la mia Orchestra Italiana. Ci son tornato anche l’anno scorso».

Lungo e tormentoso, il cammino del Festival accompagna la canzone italiana da un’eternità. Cosa ha rappresentato per il nostro Paese questa manifestazione?

«Ho seguito per passione e per lavoro tutta l’evoluzione della musica popolare italiana. E diciamo la verità, con il tempo stiamo rivalutando quel che è successo al Festival. Io ero uno di quei ragazzi con la puzzetta sotto al naso, che vedeva Sanremo per prenderlo in giro. A me piaceva il jazz, lo swing, la musica moderna. L’altra musica. Per la verità una sera fummo folgorati: la nostra ironia si frantumò quando arrivò un certo Domenico Modugno e cantò “Volare”. Diventammo un partito, forti della consapevolezza che la musica nuova si poteva fare. La nuova canzone italiana poteva abitare anche a Sanremo, bastava che si evitasse la solita rima amore/cuore, la nostalgia del campanaro, “Vecchio scarpone” e quella roba lì. Cose che ai giovani di allora non piacevano. Successivamente al Festival hanno partecipato anche rappresentanti della musica di serie A: Battisti, Dalla. E c’è stato anche un periodo in cui la serie A della musica ha disertato il Festival. Se ci guardiamo indietro, attraverso Sanremo, e in generale la nostra musica, c’è da osservare che la canzone italiana, nel ’900, è stata la musica più creativa. Da Carlo Buti in poi è diventata sempre più interessante, con l’unico handicap di non essere riuscita a farsi esportare. Tranne alcune canzoni affidate ai tenori, molto del nostro patrimonio canzonettaro è rimasto negli angusti confini italici. L’italiano non è così diffuso, comprensibile, ma le nostre canzoni erano originali, anche rispetto a quelle americane, inglesi, francesi. La grande differenza che c’è tra De André e Morandi, tra Mina e Dalla compone un firmamento assolutamente composito. Anche oggi si va da Paolo Conte a Cristicchi con grande fantasia. E ci sono rapper giovani molto interessanti. Non possiamo fare gli snob e continuare a dire che le nostre canzoni sono inferiori. Abbiamo un Vasco Rossi che ha scritto cose indimenticabili, Ligabue, senza dimenticare i cantautori antichi e moderni. Io comincerei proprio a rivalutare questo nostro patrimonio di canzoni».

Da qualche tempo si ha la sensazione che la canzone abbia ripreso una qual centralità nello spettacolo televisivo sanremese. Fazio dice di aver pensato un cast «subito scaricabile»: che ne pensa?

«Adesso il problema è individuare attraverso Internet i desiderata del pubblico giovane, che è quello che fruisce più della musica, anche se non sempre compra i dischi. E Fazio, con Mauro Pagani, sta facendo questo sforzo: capire attraverso le radio, la rete, quali sono i trend che segue la nuova generazione televisiva. Si cerca una musica fruibile in radio e in rete. La televisione non è ancora generosa nei confronti della canzone, anzi è avara. Valorizza solo chi è già famoso. C’è sempre l’Auditel di mezzo».

Perché lei che di musica e canzoni se ne intende non ha mai fatto il direttore artistico di Sanremo?

«Me l’hanno chiesto molte volte ma non lo so fare, non è il mio mestiere, diciamo. È complicato, e poi da me la gente si aspetterebbe una scelta musicale che forse non è quella popolare. Ho fatto altro io, televisivamente, radiofonicamente, musicalmente. Ho sempre frequentato l’altra musica, non quella che va. Quando sono andato a cantare a Sanremo ho portato una canzone umoristica. Quello stile era in sonno dal tempo di Carosone. I discografici non ci credevano, invece con “Il clarinetto” ebbi un grande successo. A me diverte fare l’altra scelta. Dopo la canzone umoristica ho rilanciato lo swing, e nel 2001 non c’era ancora Michael Bublé. L’ho presentato io l’anno dopo a Milano, cantava le canzoni di Sinatra e Bennett, ma io avevo già inciso l’album “Tonight Renzo Swing”».

Ma perché Sanremo funziona sempre?

«Avevamo bisogno di un Carnevale di Rio e siccome siamo meno effervescenti dei brasiliani abbiamo scelto come nostro carnevale una settimana di canzonette, di sorrisi, polemiche, colpi di scena. Abbiamo eletto Sanremo. Del resto la popolarità il Festival se l’è guadagnata sul campo. Ci sono stati talmente tanti eventi da quando è nato: dalla rivalità antichissima delle cantanti, fino al suicidio di Tenco, il “Wojtylaccio” di Benigni. Il Festival di Sanremo è la nostra settimana di franchigia».

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