Pontremoli: «Stop all’ego-sistema,
la Motor Valley investe nei giovani»

CAPITALE UMANO. Il presidente Andrea Pontremoli, Ceo di Dallara, si racconta e spiega come la competizione tra aziende leader nei motori sia stata trasformata in collaborazione su formazione e territorio

Ci sono luoghi dove i sogni prendono la forma di motori, di elettronica, di velocità e dove si costruisce il futuro con la passione di chi crede nei giovani. L’Osservatorio Delta Index è stato ospite di Andrea Pontremoli, Ceo di Dallara e Presidente di Motor Valley (Ferrari, Lamborghini, Maserati, Ducati, Pagani, Dallara e i team di Formula 1 Haas e Racing Bulls), per capire come le aziende e le nuove generazioni riescano a incontrarsi davvero.

Per un under 27 il lavoro non è solo un mestiere, ma anche un luogo dove lasciare un segno.

«Io direi anche dopo i 27 anni... È in atto un grande cambiamento: noi avevamo un periodo dedicato allo studio, al lavoro e al riposo. Oggi queste tre fasi si fondono. Questo modello rappresenta l’azienda moderna, un’azienda che non guarda solo a sé stessa, ma a ciò che la circonda, al territorio».

Motor Valley è famosa in tutto il mondo per marchi come Dallara, Ferrari, Lamborghini... Come siete riusciti a creare questo dialogo?

«Innanzitutto siamo fortunati per due motivi. Il primo è che ci troviamo in una regione come l’Emilia-Romagna, dove la socialità è parte integrante del nostro modo di essere. Il secondo motivo è che produciamo prodotti iconici come auto da corsa, supercar e superbikes. Dico sempre che se producessimo padelle, sarebbe più difficile essere attrattivi».

Sì, ma stiamo parlando di otto brand mondiali che collaborano...

«Dobbiamo essere particolarmente bravi perché i nostri prodotti sono perfettamente inutili ma molto costosi. Non si tratta di vendere qualcosa di indispensabile, ma piuttosto di coltivare emozioni, passioni e l’essenza stessa del vivere. Per fare questo, è essenziale costruire un vero e proprio ecosistema. Come Presidente mi sono posto l’obiettivo di passare da un “ego-sistema” a un “eco-sistema”».

Non mi dica che avete cancellato l’egoismo dal vostro vocabolario aziendale.

«Tutti noi tendiamo a lavorare un po’ per noi stessi, e dico sempre che è giusto che l’azienda sia un po’ egoista, ma la sostenibilità ci impone di pensare all’egoismo a lungo termine. Mi chiedo come la nostra azienda potrà essere tra cinquant’anni, quando io non ci sarò più. Questo cambia la prospettiva. Abbiamo condiviso questa visione con le aziende della Motor Valley. Ma intorno agli otto brand ci sono 15.082 imprese distribuite tra Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto».

Come riuscirete a mantenere questo sistema nel tempo?

«Attraverso tre direttrici principali. La prima è il modello economico: dobbiamo avere un business sostenibile con profitti che ci consentano di investire nel futuro. La seconda è lo studio di nuovi sistemi formativi, poiché è la generazione di nuove conoscenze che farà la differenza in futuro. La terza è aiutare le nuove imprese a far parte di questo ecosistema. Per questo abbiamo creato il Motor Valley Accelerator a Modena, finanziato da tutte le aziende, che ospita 40-50 startup con l’obiettivo di costruire proprio questo ecosistema».

Quanto conta il territorio attorno a questi prodotti eccellenti?

«Tantissimo: chi acquista questi prodotti vuole vedere come e dove vengono fatti. Sta emergendo sempre più forte il concetto di “azienda luogo”. Si costruisce un sistema territoriale e sociale molto forte perché traina tutto, inclusi servizi come l’ospitalità e la ristorazione. Tutto questo va costruito insieme. Non possiamo permetterci che i ristoranti offrano cibo scadente, perché un’esperienza negativa rovinerebbe l’eccezionalità dell’esperienza principale. Così gli hotel, così i trasporti. Dobbiamo tutti alzare il livello. Questo è il concetto che ha sempre guidato Dallara: la ricerca dell’eccellenza. La ricerca dell’eccellenza ti impone di non stare mai fermo, perché “ricerca” significa continuare a cercare, quindi essere in continuo divenire. E l’eccellenza si sposta: quando la raggiungi, non sei più eccellente, sei la normalità, e devi andare avanti. Questo è il sistema Motor Valley».

Come Dallara e la Motor Valley sono riuscite ad avvicinarsi al mondo dei giovani con un linguaggio adatto a loro?

«Innanzitutto, il sistema più semplice è avere un’azienda giovane. La nostra età media è di circa 33-34 anni. Dico sempre che ci sono tre modelli che spingono le persone. Il primo è “fai quello che sai fare”, noi cerchiamo la competenza. Ma c’è un modello molto più potente, che è “fai quello che vuoi fare”, ovvero la motivazione che è molto più forte della competenza. Il terzo modello è “fai quello che ritieni giusto fare”, che è il tuo sistema valoriale. Questo è potentissimo».

In quale modo fate arrivare questi straordinari messaggi?

«Come azienda, devo comunicare non tanto cosa faccio, né come lo faccio, ma il nostro modo di essere azienda. Noi lo facciamo attraverso programmi come “F1 in Schools”. Andiamo dai ragazzi dai dieci ai sedici anni, che sono proprio nella fase in cui costruiscono la propria identità. Però io gli faccio già provare, assaporare cosa vuol dire fare impresa».

E per lei cosa significa fare impresa?

«Impresa significa fare una cosa difficile. Faccio un’impresa se scalo l’Everest, se vinco una gara. E capisci che l’impresa da solo non la puoi fare, hai bisogno di un gruppo. In “F1 in Schools” insegniamo questo: hai un obiettivo, vincere una gara di Formula 1, ma per raggiungerlo hai bisogno di un team. E così capiscono un concetto per noi fondamentale come azienda: la competizione è un favoloso strumento per imparare».

Oltre ad aver eliminato l’egoismo, avete anche rovesciato il concetto di competizione?

«Il competitor non è un nemico, è uno strumento per vincere, per imparare. Io come azienda cerco sempre competitor molto più forti di me, perché imparo dai migliori. Quando andavamo a scuola, non copiavamo dal più scarso, copiavamo dai migliori. E quindi, vedere il competitor come amico, come strumento per migliorarsi, è fantastico. Questo lo facciamo anche con l’università, con la Formula SAE: 2.000-2.500 futuri ingegneri che hanno costruito la loro macchina da corsa, competono tra di loro, ma si aiutano».

Ci faccia degli esempi di competizione al contrario tra giovani.

«I giovani tedeschi hanno regalato agli indiani il crashbox in titanio perché il loro in polistirolo non era sicuro. Così tutti i concorrenti potevano battersi alla pari, da veri competitor. Non solo, ho visto anche un’altra cosa in questa competizione bellissima, perché mettiamo i paddock in ordine alfabetico e c’era l’Iran di fianco a Israele. E vedere questi ragazzi che si aiutavano, si scambiavano le chiavi, i cacciaviti, le idee, mentre questi Paesi a livello politico sono l’uno contro l’altro... Dobbiamo veramente lavorare su questo spirito dei ragazzi che non hanno queste barriere mentali».

Dallara come valuta i giovani, come li porta a bordo?

«La selezione la faccio essenzialmente su un ambito valoriale. Cerco di capire cosa loro ritengono giusto e quale scopo abbiano. Penso che anche noi genitori dovremmo trattare i ragazzi da adulti, perché li trattiamo troppo da bambini, cerchiamo di proteggerli in tutti i modi, e secondo me è sbagliato. Il secondo è farli sperimentare tante cose diverse, perché loro non hanno ancora chiaro in testa cosa vogliono fare da grandi. Ma io trovo persone come l’ingegner Dallara, che ha 89 anni, che ancora adesso non sa esattamente cosa vuole fare da grande. E lui chiama l’azienda l’ “imparatoio”. È il posto dove io vengo tutti i giorni a imparare. E impara dai ragazzi. Ed è incredibile».

Come è il primo giorno di lavoro in Dallara? Chissà che emozione per un giovane con tutti questi bolidi...

«Noi assumiamo solo un giorno al mese, il lunedì. Sembra una banalità, però consente a tutti noi - dall’ingegner Dallara, a me e a tutti di direttori - di dedicare del tempo a tutti i ragazzi nuovi. Quando tornano a casa e gli chiedono: “Com’è andato il tuo primo giorno di lavoro?”, loro dicono: “Ah beh, aspettavano solo me, c’erano tutti, dal fondatore a chi dirige l’azienda”. E quindi, nel primo giorno, gli hai trasmesso un messaggio potentissimo: tu sei l’asset più importante che ho. Le persone rimangono in azienda, perché trovano un sistema sociale dove si trovano bene. Io dico a tutti i miei capi: “Le persone non lasciano l’azienda, lasciano il proprio capo”. E ricordiamocelo questo, ogni capo ha una responsabilità, come ogni genitore».

Una volta assunti, i ragazzi hanno bisogno di essere formati.

«Su questo devo ringraziare tutti i miei colleghi di Ferrari, Lamborghini, Maserati, Pagani, Ducati, eccetera, che hanno capito che si può competere cooperando nella costruzione delle competenze. La formazione, l’investimento che stiamo facendo, che è molto grande, è un investimento fantastico. Perché quelle persone diventeranno tre cose alla fine: o i miei collaboratori, e quindi avrò tutto l’interesse a formarli bene ; o diventano miei clienti, perché vanno da un’altra parte e quindi diventano miei clienti, e quindi ho tutto l’interesse a formarli bene ; o diventano miei competitor, quindi le persone con cui mi confronterò per migliorarmi, e quindi ho tutto l’interesse che loro siano bravi. Quindi, qualsiasi sia la scelta, io devo formare bene le persone. E questo deve diventare il posto dove le persone amano venire a studiare, perché trovano un sistema sociale, perché trovano un sistema formativo. E quindi la nostra Academy non è solo un luogo, solo quattro mura, ma è il concetto che fa la differenza».

Eppure alcuni imprenditori temono che la formazione possa essere un investimento a perdere...

«È un investimento a lungo termine. Perché noi in Italia possiamo solo competere lì, non potremo competere sulla produzione a basso costo, non abbiamo né la produzione a basso costo, né l’economia di scala. Possiamo solo puntare su ciò che fa l’elemento differenziante. E guardate che la formazione delle persone è un elemento differenziante». Certo, dobbiamo avere delle aziende che fanno utili, perché questo è importantissimo, è quello che ti permette di sostenere quel futuro. Quindi devo fare utile, ma devo anche, come azienda, essere utile. E questo è il concetto che devo trasferire ai miei colleghi imprenditori, perché nel momento in cui cominci a formare, ti rendi conto che è molto bello da un lato, ti dà uno scopo di vita e uno scopo all’azienda, ma poi diventa iper-attrattivo per le nuove generazioni, ma anche per trattenere le vecchie generazioni».

Il tema è anche trattenere, perché il primo giorno è bellissimo. Ma il centesimo?

«Trattenere è forse la parola sbagliata, perché sembra quasi una costrizione. Io devo sempre attrarre come il primo giorno, come quando ti sposi, non è che tua moglie la sposi una volta per tutte, tutti i giorni la devi conquistare. E lo stesso deve fare l’azienda con le persone che lavorano qui: devo sempre conquistare le persone e le conquisto attraverso i valori. Il primo giorno spiego loro come si fa carriera in azienda. La nostra è un’azienda meritocratica. Qui sei pagato per quello che sai, e fai carriera per quello che sei. Quindi io posso pagarti molto perché sai fare una cosa che nessun altro sa fare. Ma per far carriera devi avere un sistema valoriale che sia aderente a quello dell’azienda».

Non ci posso credere che nella Motor Valley non vi “rubiate” le persone...

«Siamo continuamente in contatto, non ci rubiamo le persone, ma ci scambiamo le persone, sempre con l’obiettivo di far crescere la persona. Perché questa è la differenza. Se io sono concentrato sulla mia azienda e su come faccio a trattenere quelli bravi, secondo me li perdo. Io devo dire cosa faccio io con la mia azienda per fare in modo che quelli bravi vogliano venire a lavorare da me. E mi faccio questa domanda tutti i giorni».

Nella sua esperienza cosa rappresentano i giovani in chiave di innovazione e di energia?

«I giovani per noi hanno due grandi caratteristiche: un’energia pazzesca che va indirizzata e non hanno barriere mentali, che è un valore. Però per fare l’innovazione hai bisogno di altri due elementi. Il primo è la competizione. Quindi devo potermi misurare con qualcuno che è molto bravo, perché è uno strumento per imparare. Il secondo, che è difficile da scardinare sui giovani, è il concetto dell’errore. Per essere innovativo devo poter sbagliare. Perché se non posso sbagliare, faccio solo quello che so. E quindi sono conservativo».

Spesso le aziende hanno fame di assumere giovani e li ritengono già pronti. Secondo lei, un giovane deve essere più pronto o preparato?

«Deve essere preparato. Perché pronto vuol dire che ha già pianificato tutto. Pronto significa sapere cosa e quando fare, preparato significa gestire l’imprevedibile. Nell’era del caos, gli italiani eccellono nella gestione dei cambiamenti. Questo è il valore che cerchiamo».

È cambiata la concezione di lavoro tra le generazioni. È possibile trovare un equilibrio?

«Il fattore che mette insieme è la capacità di dare a un’azienda uno scopo. La nostra misura sociale non sono i soldi, ma la bellezza del prodotto migliore, il denaro è necessario ma è uno strumento per lo scopo. Questo concetto di responsabilità e di scopo è quello che tiene insieme, secondo me, le generazioni. Ed è un concetto di risultato educativo in chiave orientativa per i giovani. Cosa ha fatto? Sta lavorando, si sta divertendo o sta costruendo il futuro? Tutte e tre le cose».

C’è un episodio della sua vita che ha modificato in maniera forte la concezione del lavoro e che poi l’ha aiutata a capire maggiormente e a dialogare con le nuove generazioni?

«Sì, a 13 anni. Io sono figlio di un mugnaio. Avevo tre passioni: la velocità, la musica e l’elettronica. Però vivevo in un paesino, Bardi, in cima alla valle. E mio padre aveva fatto questo mulino per il quale si era indebitato, un mulino moderno, innovativo. Per studiare elettronica avrebbe dovuto pagarmi il collegio a Parma e allora mi chiese di fare ragioneria in paese. E io gli dissi: “Se puoi farmi fare la scuola che mi piace bene, altrimenti vengo subito nel mulino con te e studierò per mio conto”. Mi ricordo che mio padre mi guardò e mi disse: “Andrea, essere indebitato per il 100% e per il 101% non cambia niente. Vai e fai la scuola che ti piace. E ricordati di una cosa: io ho fiducia in te”. Ecco, “io ho fiducia in te”, si è trasformato nel concetto di responsabilità, perché io ero responsabile della mia scelta. Ancora adesso che mio papà non c’è più da 26 anni, ce l’ho sulle spalle. Ecco, questo è quello che vuol dire trattare i ragazzi da adulti. Se avesse avuto i soldi probabilmente non mi avrebbe trasferito questo insegnamento. Ecco, noi dobbiamo dare fiducia ai giovani, perché nella mia esperienza, ormai di 45 anni, perché ho iniziato il 18 agosto del 1980 in IBM. È un’azienda che devo ringraziare perché per 27 anni mi ha insegnato a fare il mestiere che faccio oggi. Ecco, in questi 45 anni ho visto che forse l’1% delle volte sono stato tradito dalla fiducia che ho dato. Ma questo vuol dire che il 99% delle volte sono stato ripagato dalla fiducia che ho dato. Quindi è conveniente dare fiducia, perché premia 99 volte su 100».

Quale consiglio darebbe a un giovane per costruire una carriera solida e senza pretese immediate?

«Il segreto è non pensare alla carriera, ma fare la cosa che ti piace. Perché sarai bravo, non ti peserà, e porterà risultati. E quindi automaticamente farai carriera, ma se pensi a come fare carriera, hai già sbagliato, tanto come pensare a come fare soldi. I soldi sono una conseguenza del fatto che stai facendo delle cose giuste. L’ingegner Dallara voleva fare delle macchine da corsa da quando era bambino. Io avevo quelle tre passioni che me le sono coltivate, e le ho ancora tutte e tre. Ed è quello che mi ha portato qui, non sono stati i soldi, non è stato il lavoro. È stata questa comunanza di valori.

Per approfondire il tema del rapporto tra AZIENDE e GENERAZIONE Z collegarsi al sito dell’Osservatorio Delta Index

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