Il calcio al contrario: Ottavio si racconta
Bianchi, la vita in un libro scritto dalla figlia

L’ex tecnico Ottavio Bianchi ha scritto la sua autobiografia in collaborazione con la figlia Camilla, giornalista de L’Eco di Bergamo. Da giovedì 14 maggio in libreria.

L’uomo che, conoscendolo, trasmette «una sensazione di freddo e pulito. Come se gli fosse nevicato dentro» (Gianni Mura) s’è arreso al calore dei sentimenti. A quasi 77 anni Ottavio Bianchi ha ceduto, accettando che la figlia Camilla (giornalista de «L’Eco di Bergamo») scrivesse la sua autobiografia. E sulla copertina c’è un sorriso spiazzante, considerata la fama. «Lo dite voi che sono duro, in realtà con i figli sono sempre stato un debole. Ma ho molto apprezzato lo stile di Camilla: si può raccontare la verità rispettando tutti. Io avrei potuto riempire tomi e litigare col mondo, è stata decisiva la sua leggerezza».

«Sopra il vulcano. Il campo, lo scudetto, la vita» di Ottavio Bianchi e Camilla Bianchi, edito da Baldini+Castoldi nella collana Le Boe, da giovedì 14 maggio sarà in tutte le librerie al prezzo di 16 euro. Il libro è disponibile anche online su www.baldinicastoldi.it

Eppure - andiamo ai contenuti del libro - quando sua figlia le ha detto di voler fare la giornalista...

«Sì, le ho risposto che mancava solo che suo fratello volesse fare l’arbitro! Sono due categorie con le quali non sono mai andato molto d’accordo, lo riconosco».

Quindi si è ricreduto. Non fa passi indietro, invece, nella battaglia sui giovani. Raccontandosi da ragazzino, dice: «I tornei a cinque li vincevano sempre gli orfani di guerra».

«Per forza: stavano ore e ore a giocare sul campetto del collegio. La loro era la scuola della strada, degli oratori. Oggi, purtroppo per il calcio italiano, quella scuola non esiste più. Lo dico per esperienza personale, vengo da quell’ambiente».

A 13 anni il Brescia l’ha portata nel vivaio, lì ha conosciuto Karl Neschy.

«Austriaco, aveva giocato in Nazionale, figlio della scuola Danubiana. Un maestro. Mino Favini giocava in prima squadra e veniva a seguire il suo lavoro, allenamenti e rapporti umani. E poi è diventato... Mino Favini lo scopritore di talenti».

Lei racconta: «Al ristorante per la prima volta mi ha portato Neschy, a casa mia a cena c’era pane e latte».

«È il modo per rendere l’idea di una famiglia onesta, papà tipografo e mamma sarta, tre figli e tanta concretezza. Si viveva nel giusto. Io ho avuto la fortuna di fare calcio e quegli anni di oratorio e il lavoro di Neschy per affinarmi la tecnica individuale sono stati fondamentali».

Poi lei ha lavorato per tutelare i settori giovanili, ma oggi...

«Se guardo avanti mi auguro che l’Italia impari da questa immane tragedia: meno soldi e più giovani. Ci saranno scambi tra i big, poi tutto sarà ridimensionato. E allora spazio ai vivai».

A lei è servito per gli infortuni. A 17 anni un crociato, a 27 l’altro. Allora si finiva la carriera, lei invece è arrivato a 350 gare da professionista. Da sano cosa avrebbe fatto?

«A volte me lo chiedo, anche se so che la tecnica affinata negli anni giovanili poi mi ha aiutato a superare i problemi alle ginocchia. Usavo il destro o il sinistro per difendere la gamba più dolorante. Il colpo sotto o un certo tipo di tiro erano autotutela, non esibizionismo. Ma resto comunque un privilegiato».

Per la carriera?

«Ho giocato con Rivera, Sivori, Altafini, Sormani, Zoff; di mestiere ho marcato Pelé, Cruyff, i grandi italiani. E poi ho allenato Diego, Careca, Voeller...».

E a chi parlando di Maradona le diceva «difficile gestirlo e allenarlo» lei ha sempre risposto: «Era molto più difficile allenare chi si crede Maradona senza esserlo».

«Ma certo. In campo Diego si allenava eccome, poi fuori dal campo non era più un problema mio. E lo scudetto di Napoli è figlio di tutti, a partire dai suoi compagni, con i quali avevamo costruito l’equilibrio perfetto».

Molti erano illustri sconosciuti.

«Ma italiani, e tantissimi erano napoletani. C’era il senso di appartenenza. È il lavoro sul vivaio, l’Atalanta è un esempio».

A proposito di Atalanta: lei racconta dell’esordio di Pacione, preferito a Beppe Savoldi: 19 anni contro 35.

«Achille Bortolotti, uno dei migliori presidenti con cui ho avuto a che fare, la sera prima nel ritiro di Sarnico era esterrefatto: “Chi gioca domani?!?”...».

Con i presidenti ha avuto rapporti strani. Con Sibilia ad Avellino..

«Quel caffè in clinica dov’era ai domiciliari non lo scordo più».

Però nel cuore più di tutte le altre squadre lei ha il Como...

«Per i risultati ottenuti in rapporto ai mezzi. Giocatori intelligenti, organizzazione. E le scarpe da calcio di Hansi Muller che ci fruttarono punti decisivi».

Poi lei racconta del Napoli e della necessità di difendere in 7 contro 10, perché i talenti davanti aiutavano poco. Era il 1987!

«Sono passati 33 anni, lo so. Eravamo all’avanguardia, oggi queste analisi sono la prassi. Ma lo dico sempre: nel calcio non si inventa niente. Io l’avevo imparato tre anni prima seguendo gli allenamenti di Happel con l’Amburgo, la squadra che aveva battuto la Juve ad Atene, nella finale di Coppa Campioni».

E chiude onorando le associazioni per gli ex calciatori in difficoltà.

«Sì, non danno soldi ma offrono servizi. E questo rende meno opprimente l’onta di essere passati dall’agio all’indigenza. Sa quale società si occupa dei suoi ex calciatori? Il Barcellona. Sì, il Barça è più che un club».

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