«Quell’iniezione un anno fa: la gioia di tornare a vivere»

Continuano le nostre interviste a bergamaschi che s sono vaccinati contro il Covid. Ecco quella al direttore del Dipartimento di Emergenza e dell’Area critica dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo Luca Lorini.

«Quel 27 dicembre dell’anno scorso credo mi resterà scolpito nella mente e nel cuore come nella pietra: sono stato il primo a vaccinarsi contro il Covid in ospedale, e l’emozione è stata di quelle da far tremare i polsi». E trema anche un po’ la voce a Luca Lorini, direttore del Dipartimento di Emergenza e Urgenza e dell’Area critica dell’Asst Papa Giovanni di Bergamo nel ripercorrere quei minuti cruciali: «Posso dirlo? Non vedevo l’ora che mi bucassero il braccio. Davvero non vedevo l’ora».

Da quel giorno è passato quasi un anno: da quella prima dose in avanti come si è sentito?

«La prima reazione immediata è stata di gioia, ma anche di orgoglio: dopo i difficilissimi mesi della pandemia, dopo settimane passate praticamente chiuso in ospedale a cercare di salvare quanti più malati possibile, per curare al meglio quelle persone che non avevano più un respiro, per trovare terapie che potessero alleviare sofferenze ed evitare che l’infezione diventasse letale, mi sono sentito orgoglioso per essere stato scelto tra i primi a ricevere quello che ritengo un miracolo della scienza. L’ho vissuto quasi come un premio, un segno di gentilezza verso l’impegno profuso. Poi, certo, la sensazione successiva è stata quella di liberazione: c’era finalmente uno spiraglio nel buio della pandemia, e lo avevamo ottenuto grazie alla scienza. Lo avevamo atteso tanto, ci avevamo sperato, quasi non ci credevamo quando è arrivato: nessuno si illudeva che fosse il momento del “liberi tutti”, e infatti non è stato così, ma è stata una grande vittoria. Quel giorno, dopo la prima dose, sono andato a farmi una gran bel giro in moto: mi sono riappropriato di una delle mie passioni. una sensazione davvero esaltante, di vita ritrovata».

La strada da quella prima dose ricevuta non è stata però subito tutta in discesa. Sono arrivate altre ondate di contagi, la gente ha cercato faticosamente di riprendersi la sua vita, ma le Terapie intensive si sono di nuovo saturate di malati. E a un anno di distanza c’è chi ancora non vuole saperne di vaccinarsi. Quanti ne ha incontrati, di no vax, di paurosi, di refrattari?

«Tanti, anche tra quelli che ho curato e che devo curare anche adesso. Sapevamo bene che dopo la prima dose, e dopo la seconda, non era certo finita la pandemia, immaginavamo che ci sarebbero state altre ondate, ma sapevamo che eravamo tutti sulla strada giusta, con l’arrivo del vaccino. Però, devo proprio ammetterlo, io non avevo affatto messo in conto che ci potesse essere tanta gente contraria al vaccino durante una pandemia così terribile, dopo così tanti morti, dopo mesi così tragici. Cerco di dirlo nel modo più educato possibile: le motivazioni che vengono avanzate da chi non vuole vaccinarsi non hanno ratio. Ho provato a dialogare, ora non ho più parole.Eppure li vediamo gli effetti del vaccino, li stiamo toccando con mano, credo non ci sia altro da aggiungere».

E alle persone non vaccinate che lei ha curato, che ha strappato alla morte dopo che sono finite in Terapia intensiva, davvero non dice niente? Non ci ha mai parlato?

«Ci ho parlato e ci parlo. La prima cosa che dico è che proprio loro sono, inconsapevolmente ,i promoter ideali, i primi e più forti testimonial del vaccino. Diciamolo chiaramente: se questo grande miracolo della scienza fosse arrivato prima, non avremmo avuto tutti i morti che abbiamo dovuto contare».

Anche tra i suoi amici e conoscenti ha incontrato persone refrattarie al vaccino? E come si comporta in questi casi?

«La prima reazione è sempre quella dello stupore, ma verso me stesso: ripeto, io che sono uomo di scienza e sono abituato a calcolare ogni variabile in ogni situazione, non avevo proprio immaginato che ci potessero essere tante persone che, dopo aver visto morti, dopo essere state chiuse per mesi in casa senza un ristorante, un film, senza un abbraccio con i propri cari, decidessero di rinunciare a una conquista della scienza. Dopo lo stupore, tante volte ho provato a convincere, ma davvero faccio fatica a concepire. Davanti all’amico che mi dice “mi sono vaccinato, parla tu con mia moglie che proprio non vuole saperne”, il primo sentimento è di sentirmi incapace di confrontarmi con chi ha posizioni irrazionali. Poi ci si prova, certo, ben sapendo che la paura, il timore, possono essere annullati con spiegazioni, ma certe convinzioni no. Anche se, mi viene da aggiungere, è quantomeno stridente che ci si fidi della scienza quando si chiede di essere curati per un tumore, per una leucemia, per un infarto, e poi non ci si fidi per un vaccino contro un virus che ha scatenato una pandemia di cui non ci siamo affatto liberati. Eppure, questo vaccino è il vaccino più testato della storia: mai così tante persone sono state immunizzate in così poco tempo e in così tanti Paesi del mondo».

Il vaccino è stato la svolta, la vita sta riprendendo quote di normalità ,ma l’esistenza di tutti è certamente cambiata. La sua?

«Diciamo anche che senza il vaccino tanti non ci sarebbero più. Con il vaccino invece siamo riusciti a riappropriarci della nostra quotidianità, del gusto dello stare insieme, della convivialità. E certi eccessi è anche un bene, suvvia, che non ci siano più: ben vanga un po’ meno folla, un po’ più di igiene, assembramenti in meno. Siamo tutti un po’ più attenti: io personalmente, se ho la possibilità di saperlo, scelgo di frequentare solo chi è vaccinato, come me. Certo, curo con la stessa attenzione chi è vaccinato e chi non lo è perché sono un medico e la mia missione è quella di aiutare chiunque, senza differenze. Ma nella mia vita privata non apprezzo affatto l’idea di condividere la tavola, per esempio, con chi ha scelto di non proteggersi. E quindi di non proteggere neppure gli altri. Lo reputo una mancanza di rispetto verso tutti i morti che abbiamo avuto, le tante persone che se ne sono andate, da sole, senza un conforto, una carezza. Con il vaccino quelle persone sarebbero ancora qui con noi».

Lei la terza dose l’ha già fatta: bisognava partire prima?

«Alla gente si dovrebbe parlare sempre in modo limpido: tutti i vaccini, e questo il mondo della scienza lo ha sempre saputo, hanno bisogno di un richiamo. Con questo contro il Covid non sapevamo quanto sarebbe durata la copertura, ma sapevamo che comunque si sarebbe affievolita nel tempo. Sono stati i numeri che arrivavano da Israele, che ha avuto una nuova ondata in anticipo e ha cominciato prima con le terze dosi, a farci capire che la durata di questi vaccini era di 6 mesi o poco più. Per cui sì, dovevamo partire prima, siamo in tempo per recuperare ma bisogna accelerare e non indugiare: chi si è già immunizzato con due dosi non abbia dubbi, e vada a prenotarsi, se non l’ha ancora fatto».

E il futuro come sarà? Dobbiamo pensare a una quarta dose?

«È presto per dirlo, la scienza procede con metodo: osserva, studia, deduce e agisce. Non è detto che la protezione con una terza dose non sia più lunga che con due. Bisogna osservare e poi agire rapidamente. Più aumenta il numero dei vaccinati, e dei richiami, a livello globale, più la circolazione virale si riduce. Il ciclo pandemico potrebbe esaurirsi nel giro di poco tempo. Ma, sia chiaro, se emergerà la necessità di una quarta dose la si farà. Io ci vado di corsa. E dovremmo andarci tutti. Intanto, però, proteggiamoci con la terza».

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