«Medici e ammalati
stesso bisogno nel cuore»

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IL VIDEO: La Bergamo che non avete mai visto: una città che lotta in silenzio
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Tante le testimonianze che ci arrivano direttamente da medici e infermieri, impegnati in prima fila in questa emergenza.

Prima malata in casa ...

Ricordo ancora quando il 7 marzo sono scesa dai miei genitori per far giocare i miei bimbi coi nonni. L’8 ci dicono che una paziente ricoverata in reparto era positiva al tampone.. era l’inizio della battaglia. Sono seguiti giorni in cui ogni tanto si riscontrava un nuovo caso positivo e non avevamo ancora tutti i presidi necessari per proteggerci.

Così, subito, ho contratto il Coronavirus e ho contagiato anche mio marito e i miei bimbi di due anni e mezzo e 11 mesi. I bimbi dopo due giorni stavano bene, con tanta voglia di giocare. Per me e mio marito (siamo stati sintomatici per 10 giorni) sono stati giorni di stanchezza e preoccupazione (se peggioriamo tutti e due dove mettiamo i bambini che sono positivi e rischiano di infettare zii o nonni?!).

In questa situazione siamo però rimasti stupiti dal fatto che durante questa malattia, che a livello mediatico risuona per la sua capacità di creare solitudine (quarantena, negozi e fabbriche chiuse, distanziamento sociale…), la nostra esperienza è stata caratterizzata dalla parola compagnia.

Dal primo istante in cui ho comunicato ad amici e parenti che eravamo ammalati da Coronavirus siamo stati al centro di un’attenzione e una cura commovente. I parenti ci facevano videochiamate quotidiane, anche per far compagnia ai bambini; ci hanno fatto arrivare diversi regali con Amazon per aiutare i miei bimbi ad affrontare un lungo periodo di reclusione (non abbiamo neanche un balcone in casa); amici ci hanno fatto la spesa o portato le medicine.

La pediatra dei miei figli ci chiamava tutti i giorni per sapere dei bambini e un giorno (per la mia preoccupazione sulla gestione dei bimbi nel caso di un nostro ricovero) mi dice che nel caso li avrebbe presi in casa lei.

Mi ha commosso un’attenzione del genere veramente non scontata. Tutte queste persone sono state per noi segno di Cristo che si faceva presente nella nostra vita che ci faceva sentire amati e preziosi. La solitudine del virus non ha vinto sulla nostra famiglia.

Contemporaneamente ci accompagnava la preghiera serale del Rosario. Una sera mio marito mi disse: «il Rosario non diciamolo solo per noi, ma ricordiamo tutti quelli che sono soli senza aiuti, gli anziani, chi soffre e non può vedere i familiari».

... Poi il rientro in corsia

Dopo tre settimane ho avuto due tamponi negativi e sono rientrata al lavoro. Mi portavo negli occhi e nel cuore la compagnia che aveva caratterizzato la nostra storia, Cristo che si era fatto incontrabile e amico in tante persone intorno a noi.

Entrando in ospedale ho visto invece la famosa solitudine del virus di cui tutti parlano. Siamo un reparto a bassa intensità di cura per cui da noi ci sono o pazienti che stanno tutto sommato bene o pazienti che per patologie pregresse ed età non beneficerebbero delle cure intensive (e sono quelli che spesso muoiono). Dei 18 pazienti che dovevo seguire 16 stavano abbastanza bene e due erano molto gravi.

Sono abituata a parlare con la famiglia e dare “brutte notizie”. Ma quando questo accadeva, di solito la famiglia era lì con il proprio caro per accompagnarlo. Stavolta era diverso. Mi chiama la figlia di una delle due pazienti e mi dice che vorrebbe tanto salutare la mamma. La signora sta morendo e vicino a lei non c’è un familiare o un amico. La presenza di Cristo che per me era stata così dolce non poteva concretizzarsi per lei in familiari o amici.

Sono andata da lei con il mio telefono in mano (non avevamo ancora i telefoni aziendali per le videochiamate dei pazienti) e ho chiamato la figlia. Hanno così potuto salutare la mamma, la nonna. La signora quando ha visto i suoi parenti ha cambiato espressione, un sorriso bellissimo. Era la prima volta che assistevo in stanza al commiato dei parenti. La figlia le ripeteva continuamente: «ti voglio bene»; e io, nascosta, piangevo insieme a lei.

Nei giorni successivi le condizioni della signora sono peggiorate, non è stato più possibile farle vedere le figlie, ma ogni volta che le sentivo per aggiornarle mi dicevano: «Visto che non possiamo salutarla noi, le faccia una carezza da parte nostra, le dia un abbraccio lei che può».

Tenevo quella stanza sempre a fine visita. Entravo dalle due pazienti morenti, e poi (anche se non se mi avranno sentito o meno) parlavo con loro, dicevo loro quanto i parenti le volessero bene e pregavo per loro. Poi uscivo: la bellezza della compagnia ricevuta in quarantena doveva arrivare anche nella stanzetta sperduta di un ospedale di provincia. Da queste telefonate sono rimasta molto legata alla figlia: quando finirà ci vogliamo vedere per abbracciarci e conoscerci.

Da quell’episodio mi sono resa conto del bisogno di compagnia anche in chi non è moribondo ma magari “fuori dal mondo” perchè anziano e non in grado di usare telefono di ultima generazione. Per cui la mattina metto il mio telefono in un sacchetto di plastica, lo tengo sul carrello e a chi non può farlo diversamente faccio fare le videochiamate. E nel mio giro visita cerco di dedicare un momento di chiacchiere di attenzione a tutti perché la solitudine non prevalga.

Questa pandemia mi ha costretto ad andare più a fondo del bisogno del mio cuore (il bisogno di compagnia, di salvezza, di eternità).

Non siamo più solo medico, parente o paziente.. siamo fratelli e insieme chiediamo (anche nel pianto) che si faccia compagnia l’Unico che può dare un senso e una risposta al nostro bisogno.


Marzia Galassi

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