La civiltà contadina
e i grandi di Bergamo

Virgilio cantò la vita dei campi nelle «Georgiche». Tolstoj amava i lavori agricoli, falciava e partecipava, insieme ai figli, al raccolto del grano, com’è testimoniato nei «Diari». «Siamo tutti figli della civiltà contadina. La terra è la nostra genitrice», dichiarava Ermanno Olmi, il regista bergamasco scomparso nei giorni scorsi. «L’albero degli zoccoli», il suo capolavoro di quarant’anni fa, è ambientato in una cascina della Bassa sul finire dell’Ottocento, avvalendosi dell’interpretazione di persone reclutate sul posto, magistralmente dirette in una sorta di post-neorealismo.

«In questo film ci sono autentici contadini bergamaschi – precisò Olmi – che si sono prestati ad essere se stessi, con le loro facce, i loro gesti, il loro dialetto>. Il riscontro internazionale del film, premiato a Cannes con la Palma d’Oro, fu spiegato con il ricorso alla teoria dell’inconscio collettivo dello psicanalista Jung. L’opera di Olmi avrebbe risvegliato le origini contadine, presenti in ognuno di noi. «Quel film ha avuto successo – ci ha rivelato l’attrice Liv Ullmann – perché raccontava storie vere di persone reali, di semplici contadini con gli zoccoli. Spiega chi siamo e perché siamo così. Oggi non ne siamo più capaci. Ancora meno rispetto a quarant’anni fa. Siamo abituati a guardare solo noi stessi e i nostri telefonini. In questo modo il nostro animo non si risveglia sicuramente. Quel film, invece, sapeva esprimerlo».

Nelle sue opere precedenti, da «Il posto» a «La circostanza», Olmi, di origini popolari, aveva raccontato l’impatto con la metropoli e con la società industriale, rappresentando l’alienazione dell’uomo che aveva abbandonato la vita contadina, con il suo duro lavoro ma anche con i suoi tempi costanti, regolati dal ritmo delle stagioni, per immergersi in città sempre più trafficate, nella frenesia delle catene di montaggio o nella monotonia degli impieghi d’ufficio. Olmi era consapevole di come l’uomo contemporaneo avesse liquidato troppo in fretta i conti con il proprio passato. «L’albero degli zoccoli» riportò alla saggezza tradizionale, al senso della comunità, alla fede nella Provvidenza, con la speranza che non potremo mai dimenticare le nostre comuni radici contadine.

Già nel Novecento ci si accorse che il mondo contadino era depositario di una cultura millenaria da non disperdere, mentre avanzava, dirompente, una società sempre più materialista e asservita alla tecnologia. Non sapevamo che cosa ci aspettasse, nel terzo millennio, con la dipendenza, asfissiante, crescente e diabolica, dalla rivoluzione digitale, in particolare dallo smartphone, ormai una vera e propria protesi degli uomini d’oggi. Olmi, che decise di trascorrere la propria vita ad Asiago e di morire attorniato da quella splendida, incontaminata natura, era già tornato al mondo delle radici contadine con «E venne un uomo», il film del 1965 dedicato, a soli due anni dalla morte, a Papa Giovanni, il santo pontefice conterraneo, di cui dal 24 maggio al 10 giugno la nostra Diocesi accoglie l’urna con le spoglie mortali.

Papa Giovanni, scrivendo ai suoi familiari, affermava: «Da quando sono uscito di casa ho letto molti libri e imparato molte cose che voi non potevate insegnarmi. Ma quelle cose che ho appreso da voi sono ancora le più preziose e importanti». Roncalli amava la propria terra nativa e tornava sempre volentieri a Sotto il Monte. Quando incontrò, in Vaticano, la figlia di Krusciov, Rada, e il genero Alexei Adiubei, osservò che lui e il capo dell’Unione Sovietica avevano entrambi origini contadine e tutti e due avevano visto le guerre mondiali. Papa Giovanni metteva in pratica, lui stesso per primo, il proprio insegnamento: cercare sempre ciò che ci unisce, mai quello che ci divide. <La pace è dono incomparabile di Dio – spiegò Roncalli – ma è altresì una suprema aspirazione dell’uomo>. Difenderla era il pensiero dominante della sua «Pacem in Terris».

Nell’occasione della «peregrinatio» dell’urna di Papa Giovanni, è esposta, nel Palazzo della Provincia, la prima versione della «Morte di Abele», realizzata dallo scultore Giacomo Manzù, un altro grande bergamasco di umili origini, dodicesimo figlio del calzolaio e sagrestano di Sant’Alessandro in Colonna, Angelo Manzoni. Le profonde radici della civiltà contadina, sostenute e guidate dalla fede e dalla devozione popolare, rimaste intatte fino a non molti decenni fa, hanno forgiato uomini di questa tempra. Per la Bergamasca è un orgoglio storico e, nel contempo, un’immensa responsabilità, di cui, forse, non siamo del tutto consapevoli. Il compito che aspetta tutti i residenti di questa terra privilegiata è seguire il solco tracciato da quei grandi uomini, impegnandosi per esserne, quanto più possibile, degni.

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