Per una vera transizione occorre innovare la cultura d’impresa

A Salvatore Majorana, direttore del Kilometro Rosso, la più avanzata istituzione bergamasca per l’innovazione delle imprese, abbiamo chiesto di intervenire sui temi posti dall’articolo del prof. Alberto Brugnoli

L’idea da cui parte l’analisi del professor Brugnoli è che la transizione ecologica rappresenta un driver fondamentale per l’economia di un territorio molto internazionalizzata come quello bergamasco. Dottor Majorana è d’accordo con questa premessa?

«Senza dubbio assistiamo alla crescita di una nuova sensibilità nella società di oggi riguardo al rapporto con l’ecosistema, il clima e l’ambiente. Quindi, se dobbiamo intendere come driver la leva che muove l’opinione pubblica, il sentimento comune e ciò che arriverà dalle prossime generazioni, sono assolutamente d’accordo che il tema di “usare meglio il nostro pianeta” sarà in cima alla lista nell’agenda di coloro che compreranno servizi e che voteranno i politici. Sì, in questo senso sono assolutamente d’accordo.
Bisogna però tenere presenti gli orizzonti temporali, nel senso che certamente la nostra economia ha priorità contingenti dei prossimi dodici mesi in un quadro che è quello del riassetto dei sistemi di produzione e di governo del territorio, che invece guarda a orizzonti dei prossimi dieci o vent’anni. Quindi, la vera sfida oggi è trovare il punto di raccordo tra quelle che sono le esigenze di oggi e quelle che sono le esigenze del decennio che ci aspetta, perché a volte sembrano in conflitto».

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E secondo lei dov’è il punto di equilibrio?

«Per indole, trattando l’innovazione quotidianamente, sono abituato a pensare ai benefici che arriveranno, e quindi tendo ad alzare un tantino lo sguardo e a considerare la pianificazione di medio lungo periodo come quella su cui riusciamo a fare veramente la differenza. In questo tipo di pianificazione, dal punto di vista dell’evoluzione dell’economia del territorio, uno dei temi cruciali sono le risorse umane. In affiancamento ad una profonda revisione dei piani formativi di scuole ed università, io trovo che dovremmo fare una attenta riflessione nella gestione dei flussi migratori, perché li continuiamo a trattare come un fastidio e in realtà potrebbero essere una grande risorsa che dobbiamo imparare a sfruttare. E quindi, un primo punto di attenzione nel medio periodo è: abbiamo una risorsa preziosissima che dovremmo convertire e utilizzare, e stiamo sprecando energie nel contrastarne ciecamente l’integrazione nel nostro continente.

E questo è un tema che risolverebbe sul piano pratico problemi come la mancanza di braccia da mettere in azienda, già nel breve periodo. Lei sa bene che questo territorio soffre la carenza di personale, e quindi il bassissimo tasso di disoccupazione potrebbe in qualche modo trovare beneficio da una politica di integrazione anche di flussi migratori. Certo, sono flussi che andrebbero poi formati, educati, perché poi i lavoratori delle nostre aziende nel futuro, e qua intersechiamo con i programmi a medio-lungo termine, sono lavoratori che dovranno essere sempre più formati e sempre più istruiti. Credo che l’area di Bergamo, in particolare, ne abbia tutte le capacità e qualcuno ha già lavorato in questa direzione.»

E riguardo alla transizione verde?

«Immaginare che il sistema produttivo complessivo di questo nostra pianeta migri verso tecnologie più eco-friendly e più verdi non è soltanto giusto, ma è doveroso e per ottenere questa migrazione ci stiamo forse dimenticando che il primo passo è investire in innovazione. E quindi, se è vero che nell’agenda dei prossimi 10 o 20 anni è imprescindibile trovare delle soluzioni che ci portino a rispettare gli obiettivi che si sono dati i Paesi del mondo, non possiamo pensare che questi obiettivi arriveranno per grazia ricevuta, perché se non mettiamo energie nel sistema dell’innovazione, quindi nel coltivare startup, nel finanziare la ricerca, nel mettere in pista soluzioni che ci portino o che ci traghettino verso quell’obiettivo, è una vana speranza.

Quindi la mia riflessione di macrosistema è che se dobbiamo guardare a traguardi così sfidanti, dobbiamo farlo mettendo energie oggi in ciò che ci aiuterà a raggiungere quei traguardi. E non potranno che essere le tecnologie produttive più eco compatibili, con migliore consumo di risorse naturali, lo sviluppo di sistemi energetici di nuova concezione, un occhio attento al nucleare che potrebbe essere una soluzione sostenibile e compatibile con il processo di sviluppo di questo nostro sistema planetario».

Il tema della transizione ecologica è però ancora poco percepito dalle imprese, soprattutto le piccole-medie.

«Guardi, al Kilometro Rosso ci siamo attivati per creare un ciclo formativo per insegnare alle aziende cosa voglia dire circular economy e industria ecosostenibile, ed è in questo momento una delle missioni che ci siamo dati. Infatti, se da un lato è un obiettivo imprescindibile, dall’altro per arrivare a quell’obiettivo serve un cambio culturale, e quindi si deve ripartire dall’educare le aziende, le persone delle aziende oltre che i capi azienda, a pensare in termini diversi.

E questo tocca anche ciò che potrebbe rivelarsi un grande bluff: perché la digitalizzazione delle nostre imprese ci aiuterà ad abbattere alcuni aspetti dell’impatto ambientale, ma stiamo trascinandoci dietro un footprint carbonico crescente del mondo di internet che non dobbiamo perdere di vista. Oggi se internet fosse una nazione sarebbe il terzo paese al mondo per CO2 prodotta e questo non ce lo possiamo permettere. Per non rischiare che la cura sia peggio del male dobbiamo fare una riflessione.

È fuor di dubbio che la digitalizzazione accelera i processi, abbatte i consumi, aiuta a collegare le imprese, innesca dei meccanismi virtuosi. Ci sono però dei costi e non possiamo immaginare che ogni cosa che facciamo sia a costo zero. Ogni cosa che facciamo dobbiamo imparare a misurarla in termini di suo costo non solo economico ma ambientale.

Esattamente questo aspetto va trasferito alle imprese perché diventi un fattore della produzione: se nel modello classico i fattori della produzione erano incentrati su lavoro e capitale, ora anche l’ambiente va pesato tra questi».

Il tema energetico è uno e forse il tema che le imprese capiscono di più rispetto agli altri connessi con la transizione ecologica. Tanto è vero che gli investimenti fatti all’insegna della transizione ecologica sono in prevalenza nel mix energetico. Però l’energia rappresenta anche una grossa fonte di innovazione, un’opportunità proprio per il tipo di imprese che abbiamo su questo territorio. Pensiamo ad esempio all’idrogeno.

«È vero che nel mix energetico del pianeta sono cresciute moltissimo le energie rinnovabili, tuttavia in valore assoluto esse continuano ad essere totalmente marginali rispetto al fabbisogno di energia del pianeta; oggi siamo de facto dipendenti dai carburanti fossili e se qualcosa non cambia per il futuro, cioè non si trova una forma di energia talmente abbondante da diventare concorrente dei carburanti fossili, l’unico modo di cambiare il pianeta sarà quello di non consumare energia e quindi di spegnere le fabbriche, le città, eccetera. Evidentemente è un paradosso al quale nessuno si augura di dover arrivare: bisogna trovare qualcosa di alternativo.

Come può questo territorio competere in questa corsa? Abbiamo le fabbriche, le aziende più intraprendenti che io abbia incrociato fino ad ora. Il territorio di Bergamo è capace di sviluppare tecnologie e metterle in scala con una velocità e con una determinazione che raramente si trova, non soltanto in Europa ma anche in altre parti del pianeta. Quello che manca a volte probabilmente è il coraggio o forse la forza finanziaria di investire su filoni che sono ancora tutti da esplorare. L’idrogeno non fa eccezione. La tecnologia è nelle fasi iniziali, nonostante di idrogeno si parli da tanti anni, è ancora una tecnologia acerba, ma promette di essere un comparto che potrebbe diventare una fonte di energia pulita competitiva con il petrolio. Ci sono alcune società anche a Bergamo che su questo stanno lavorando, come la Petroceramics che opera al Kilometro Rosso».

La ricerca di soluzioni scalabili passa per grandi investimenti in ricerca e tecnologia. Senza dubbio abbiamo le capacità, abbiamo anche i mezzi per inseguire questo tipo di percorso?

«Qua il ragionamento esce dal dominio dell’imprenditore e dovrebbe salire sul tavolo dei governanti. Perché in un contesto globale che è alla ricerca di nuove fonti di energia questa è una battaglia che si può fare se il sistema Paese decide di schierarsi su questo fronte. Abbiamo avuto l’opportunità di spendere tanti soldi in ricerca e innovazione con il Pnrr, ma non vi è stata, secondo me, una sufficiente chiarezza nell’individuare alcuni filoni su cui indirizzare le ingenti risorse disponibili, mentre si è prediletto un meccanismo di parcellizzazione su numerosi stream di ricerca e innovazione. Probabilmente avremmo avuto un’occasione in più, forse l’abbiamo sprecata, per concentrare un interesse nazionale su un filone e scegliere una direzione. È comunque una battaglia che ha bisogno di essere combattuta schierando in maniera compatta gli enti di governo e le imprese, oltre che le università, quindi il mio auspicio è che si ritrovi questo tipo di allineamento su alcuni temi importanti: nucleare di nuova generazione e idrogeno. Certamente aiuta il potenziamento delle fonti alternative come fotovoltaico e idroelettrico, tuttavia non saranno a mio avviso queste le fonti che risolveranno i problemi del pianeta. Sono un prezioso integratore delle fonti energetiche, ma se vogliamo risolvere il problema della transizione ecologica bisogna sviluppare qualcosa di più disponibile e di più sfruttabile di quanto non lo siano oggi le energie solari, eoliche o idroelettriche».

Il professore Brugnoli dice che la transizione Net Zero presenta la necessità di altre grandi sfide multidimensionali: smart grid, tecnologie verdi, mobilità e infrastrutture, housing sostenibile, economia circolare dei materiali, capitale umano, inclusione e lavoro. Secondo lei quali sono le voci delle dimensioni che lei vede come utili in ordine di priorità?

«Secondo me la priorità sta sul capitale umano, che da un lato va fatto crescere, dall’altro dovrà subire una trasformazione come la trasformazione che sta subendo l’impresa. E questo su molte dimensioni compresa anzi forse per prima la consapevolezza del percorso che l’azienda deve fare per trasformarsi un’impresa sostenibile domani. Dopo il capitale umano, metterei quello finanziario. Non è che manchino i denari, però dobbiamo fare una trasformazione su una scala che non si è mai vista prima e quindi abbiamo bisogno di allineare gli enti di governo del territorio e le imprese. Ci vuole un patto per lo sviluppo tra i governi e le imprese, che liberi finanza per le sfide tecnologiche che oggi affrontiamo male. Questa finanza dovrebbe essere allocata in maniera molto robusta nello sviluppo di innovazione tecnologica. Per cui, facendo un riepilogo: formiamo le persone, facciamo chiarezza sugli obiettivi nazionali e liberiamo finanza che va indirizzata a fare ricerca».

Torniamo sul tema dell’innovazione. Ho l’impressione che la congiuntura non brillante, anche in parte dovuta alla guerra, abbia un po’ messo in ombra il tema dell’innovazione, qualche anno fa si parlava solo di innovazione e di fabbrica 4.0 e si sono stati fatti investimenti molto importanti, adesso forse un po’ meno…

«No, io devo dire, a onor del vero, che il tema dell’innovazione in questi anni è presente. Veniamo dal decennio precedente in cui non era nelle agende di nessuno, quindi tutto sommato ci troviamo in una congiuntura fortunata. Siamo appena partiti perché nonostante l’Italia abbia una lunghissima tradizione di ricerca scientifica di grandissima qualità, la capacità di mettere a terra questa ricerca scientifica di grande qualità è molto limitata. E in particolare è sottoalimentata, sottoalimentata dalle università che pur facendo grande ricerca non hanno nel loro Dna (lo stanno acquisendo sempre di più, per carità questo si nota), ma ancora oggi non hanno nel loro Dna il tratto dei creatori di impresa. Le università oggi operano come grandi generatori di conoscenza ma non generatori di nuova impresa. Si diventa creatori di impresa quando intorno all’università c’è un contesto che supporta questo processo. Questo processo richiede capitali: noi oggi siamo dei nani sul piano del capitale di rischio per nuove imprese, il venture capital è asfittico in questo nostro Paese. Ringrazio il lavoro fatto dai governi, dagli ultimi governi fino a quello attuale, perché hanno tutti sostenuto l’intervento pubblico nel campo del venture capital, basti pensare al grande lavoro svolto da Cassa Depositi e Prestiti nella creazione dei nuovi fondi di investimento. Ciò nonostante, il comparto delle start-up nel suo complesso è ancora un decimo della dimensione di quello della Francia che è totalmente confrontabile con l’Italia in termini di PIL, di sistema industriale, culturale e universitario.

Quindi siamo partiti, questa è la buona notizia, la brutta notizia è che c’è ancora molto da fare. Abbiamo usato molto l’ondata Industria 4.0, siamo riusciti in molte aziende a fare degli investimenti, ma è stata spesso un’operazione più industriale che culturale, pertanto ancora c’è bisogno di intervenire sull’organizzazione delle imprese, sulla formazione del personale per permettere loro di entrare a pieno titolo nell’era 4.0».

Vuol dire che quando si parla di innovazione le imprese bergamasche pensano subito alle macchine, un po’ meno a modelli organizzativi innovativi?

«Senza farne una regola generale, in molti casi è stato così. Ci sono alcuni campioni del territorio che sono avanti sì, non soltanto nel rinnovamento del parco macchine, dei sistemi di produzione ma anche nel rinnovamento dei sistemi organizzativi e culturali - penso alla Abb, penso alla Brembo, insomma le grandi aziende hanno fatto un bel percorso. Questo stesso percorso non è altrettanto presente in molte delle piccole e medie imprese italiane, che nonostante le nuove macchine hanno continuato a lavorare pensando a sé stessi come se fossero lo stesso soggetto di prima. In realtà la fabbrica digitale è una fabbrica interconnessa, è una fabbrica aperta che interagisce con la filiera a monte e a valle, e che nella organizzazione del proprio lavoro ottimizza le risorse interne ed esterne tramite una pianificazione modulare e adattiva, cioè che cambia al cambiare delle necessità allineata alla filiera intera che risponde. Ecco non sono tantissimi quelli che pur avendo le macchine moderne abbiano fatto il salto di collegarsi in maniera più o meno strutturale con le loro filiere».

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