«A Bergamo un addestramento speciale
ora preparo i paracadutisti al Covid»

Karim Rachedi fu inviato in aiuto all’ospedale Papa Giovanni. «Noi siamo pronti a tutto, ma da voi emergenza eccezionale. Mi comportavo come se fossi contaminato». Ora porta sempre con sè il cuore «Mola mia»

«Chi non ha vissuto l’emergenza di Bergamo non può capire fino in fondo quanto possa essere pericoloso il Covid». Dovrebbero bastare queste parole per zittire tutti i rigurgiti negazionisti o i dubbi di lesa libertà per la chiamata nazionale alla responsabilità personale e collettiva. Tanto più che l’affermazione è di Karim Rachedi, due metri d’uomo, fisico d’assalto, addestramento da paracadutista e medico toscano dell’esercito italiano. Quest’ultima specializzazione lasciata volutamente per ultima perché le prime dovrebbero fugare ogni dubbio sulla preparazione ad affrontare la paura. E invece il dottor Karim, 29 anni, in forza al Reggimento Savoia di Grosseto, inquadrato nella Brigata paracadutisti Folgore, arrivato lo scorso 15 marzo a Bergamo in piena emergenza Covid e inserito subito nel team del pronto soccorso dell’ospedale Papa Giovanni, non nasconde la tensione e la massima attenzione alla quale fu chiamato dai suoi superiori in quel periodo.

La telefonata del comandante

C’è un dettaglio della sua missione che parla da sè: «È un aspetto umano che mi ha fatto capire la gravità della situazione: fu la telefonata che ricevetti dal mio comandante. Di solito quando mi arruolava per una missione aveva sempre un tono dalla carica positiva e mi spiegava i dettagli con serenità. Lo scorso 15 marzo invece mi disse secco: Karim, devi partire per Bergamo! E io gli chiesi: quando? E lui: adesso! Un’ora di preparazione ed ero già in auto. Fu un viaggio tormentato, emotivamente difficile perché pensavo ai miei cari che lasciavo a casa e al fatto che mi avventuravo in un contesto non di guerra ma altrettanto pericoloso».

Non è una guerra

In fondo anche a Bergamo abbiamo combattuto la nostra battaglia, ma Rachedi rifiuta il paragone con la guerra e il motivo dovrebbe metterci ulteriormente in allarme per favorire comportamenti più responsabili: «In guerra di solito dobbiamo affrontare ferite da shock emorragico e per un ferito si muove un team di 15-20 persone (dai sanitari agli elicotteristi...), mentre nell’ambiente civile di Bergamo ci siamo trovati davanti a un’enorme emergenza sanitaria dove medici e infermieri erano arrivati al limite delle proprie possibilità di intervento». D’altronde quando si muove l’esercito, significa che la situazione ha superato ampiamente la capacità di gestione di qualsiasi problematica.

L’ultima spiaggia

«Noi – sottolinea Rachedi – siamo l’ultima spiaggia. Quando arriviamo, significa che il contesto civile non è più sufficiente. Infatti quando sono arrivato a Bergamo ho trovato un ospedale preso d’assalto da ambulanze e da malati con il personale sanitario costretto a turni massacranti senza neppure più riposare». L’arrivo dell’esercito fu di grande aiuto, dal punto di vista tecnico e morale. Anche se Rachedi ricorda che i primi giorni furono particolarmente complicati pure per lui, soprattutto per i casi che gli venivano affidati: «Dall’anamnesi scoprivo che il paziente era parente di una persona già malata o addirittura morta di Covid. Era incredibile, famiglie decimate dal virus. Lì ho capito che dovevo applicare la mia preparazione militare con le maggiori accortezze possibili». Addestramento speciale che ora il dottor Karim insegna ai militari perché alla tecnica va aggiunta l’esperienza e la sensibilità acquisita sul campo a Bergamo.

La lezione ai commilitoni

Nei giorni scorsi ha tenuto lezioni ai paracadutisti della caserma di Livorno per implementare le capacità di intervento e di sanificazione. Come dice Rachedi, i militari sono l’ultima spiaggia e non possono permettersi di fallire ammalandosi, così ai paracadutisti specializzati nei contesti più complicati e pericolosi di contagio ha trasmesso tutti quegli atteggiamenti fondamentali che vanno messi in atto quando ci si trova in un focolaio con alta intensità di carica virale. «In casi simili, esattamente come io ho fatto a Bergamo – spiega Karim Rachedi –, bisogna applicare stili di vita al limite del maniacale. Le procedure le conoscevo prima di arrivare ma lì da voi ho capito che dovevo applicarle ogni secondo con la massima attenzione. Così ogni 30 secondi mi disinfettavo i guanti e li cambiavo spesso. E anche quando passavo dal pronto soccorso allo spogliatoio, all’auto e poi a casa, mi consideravo sempre infetto anche se non lo ero. Dopo la doccia in ospedale, uscivo con guanti nuovi e salivo in auto tenendo la mascherina perché anche durante il viaggio mi ritenevo ancora contaminato. Solo quando arrivavo in camera da solo e facevo la seconda doccia, mi sentivo più tranquillo e abbassavo la guardia. Ma prima no, mai. La soglia d’attenzione l’ho tenuta sempre alta nonostante la stanchezza e le tante ore in corsia. Ero stato chiamato a supportare l’ospedale e a risolvere i problemi, non potevo diventare io stesso un problema perché sarebbe stata una sconfitta». Nessuna sconfitta, ma un grande aiuto apprezzato dai medici e infermieri dell’ospedale, e anche da tutti i bergamaschi.

«Resterete nel mio cuore»

Ora Karim Rachedi è destinato ad altre missioni militari all’estero. D’altronde è abituato, come tutti i soldati, a obbedire e a correre in soccorso di chi non ha più altre soluzioni che affidarsi all’esercito. Con lui ci sarà sempre anche un po’ di Bergamo e di bergamaschi. Nel suo portamonete, infatti, è conservato un cuore di legno con la scritta «Mola Mia» che gli è stato regalato all’ospedale Papa Giovanni: «Ogni volta che tocco questo cuore mi viene la pelle d’oca. Mi scorrono davanti agli occhi le decine di lastre dei raggi ai polmoni tutte uguali, tutti malati che si affidavano alle nostre mani come ultima chance. Ho conosciuto i bergamaschi e vi ammiro per la capacità di saper reagire con tanta dignità e anche con un pizzico di sangue freddo, come noi militari. Cari bergamaschi, resterete sempre nel mio cuore».

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