Il 12 maggio è la Giornata degli infermieri: «Non siamo eroi, più vicini alla gente»

Solitro (Ordine): «Oggi è la nostra festa, ma non chiamateci eroi». Dal lavoro negli ospedali alla nuova sfida della medicina del territorio. Cesa («Papa Giovanni»): «Servono maggiori risorse e più formazione».

«La pandemia ha dimostrato che la sanità senza infermieri non può esistere. Oggi è la nostra festa, voi però non chiamateci eroi». La festa, quella grande, Gianluca Solitro, presidente provinciale dell’Ordine delle Professioni infermieristiche, se la immaginava esattamente un anno fa, giorno del bicentenario della nascita di Florence Nightingale, prima infermiera, cui è dedicata la Giornata internazionale della categoria. Quel giorno, però, il mondo stava cambiando (o meglio, era già in gran parte cambiato) e gli infermieri erano impegnati in prima linea insieme ai medici ad assistere e salvare vite umane. Non c’era tempo, voglia, né soprattutto nulla da festeggiare. E oggi, a 365 giorni di distanza e con l’emergenza ancora alla porta, è l’occasione per fare il bilancio di un anno che ha in parte riscritto il ruolo degli infermieri nella sanità. «Di certo nel 2020 non ci aspettavamo di essere protagonisti in questo modo – ammette Solitro –. Avremmo desiderato esserlo in momenti di festa e non di battaglia. Anche per noi il mondo è cambiato: la realtà ci ha insegnato che la figura dell’infermiere, per tanto tempo messa in ombra, è invece indispensabile per la sanità».

Non è un caso se lo slogan scelto per la Giornata internazionale di oggi è «Ovunque per il bene di tutti»; in queste parole si nasconde il senso del nuovo ruolo degli infermieri, una categoria ormai pronta a prendersi carico non solo dei pazienti, ma anche della responsabilità di appartenere a un sistema nel quale si candida ad essere l’anello di congiunzione tra gli ospedali e i medici di famiglia, per rafforzare quella medicina del territorio che nell’anno della pandemia ha rappresentato il tallone d’Achille della sanità lombarda.

«Noi siamo il motore degli ospedali sul territorio – prosegue Solitro – e quest’anno abbiamo visto che l’infermiere non è solo quello che lavora nelle strutture ospedaliere: la mancanza dell’assistenza infermieristica sul territorio ha fatto emergere la necessità di una vera e propria cultura dell’infermieristica di comunità, per cui stiamo lavorando da tempo». Il debutto della figura dell’infermiere di famiglia è un primo passo verso questa rivoluzione: «È come una start up che non può essere ancora appieno della sua bellezza – riconosce il presidente dell’Ordine –, perché gli infermieri sono ancora impegnati con il tracciamento, i tamponi e le vaccinazioni. Il traguardo al quale stiamo puntando è di avere un punto di riferimento territoriale oltre il medico di famiglia, una figura nuova, che conosce la rete territoriale e che è in grado di governare i bisogni di cura e di assistenza».

La strada intrapresa, per certi versi grazie anche alle necessità che la pandemia ha fatto emergere, è senz’altro quella giusta, ma il tratto da percorrere è ancora lungo: in provincia di Bergamo gli infermieri sono circa 7 mila, ma ne mancherebbero almeno il 15-20% in più, per ricoprire i bisogni del territorio, soprattutto nelle strutture private e nelle Rsa, impoverite dal reclutamento massiccio di questi mesi delle strutture pubbliche. Servono numeri, ma anche un percorso di formazione continua che non può fermarsi con la fine dell’emergenza: la sanità ha bisogno di infermieri preparati e specializzati per vincere la sfida della prossimità sul territorio.

«Da questo 2020 portiamo a casa un bagaglio importante – dice Simonetta Cesa, direttore delle Professioni sanitarie e sociali del Papa Giovanni XXIII –. Abbiamo imparato a convivere con un’emergenza che da subito abbiamo capito che non sarebbe durata poco tempo. Abbiamo dato tutti una risposta importante, seppure con fatica, alle esigenze che si presentavano». Solo al Papa Giovanni XXIII lavorano 1.850 infermieri e il ricordo va al primo paziente Covid, ricoverato il 22 febbraio 2020: «Da quel giorno – continua Cesa – tutta l’azienda si è mossa per fare fronte all’emergenza sanitaria. L’ospedale ha riconvertito percorsi e reparti, arrivando ad ospitare fino a 600 pazienti Covid e abbiamo appreso a dare risposte immediate e capaci, imparando anche una nuova forma di comunicazione con i pazienti».

Oggi l’eredità di quel lavoro sono proprio gli infermieri di famiglia, ma restano ancora alcune criticità, legate proprio alle risorse. «Un ripensamento ai fabbisogni della sanità deve essere fatto – incalza Simonetta Cesa –. D’altronde, non avremmo potuto rispondere a un’emergenza che si dilatava nel tempo con le risorse che avevamo dedicato. Se in questi mesi siamo diventati di più, è stato grazie ai reclutamenti straordinari. Il lavoro da fare, adesso, è di andare a rivedere le dotazioni organiche stabili». Il concetto è chiaro: «Se vogliamo dare una risposta a livello territoriale – è l’analisi di Cesa – dobbiamo essere messi nelle condizioni di metterla in campo. La figura infermieristica rappresenta una risposta seria e competente alle esigenze della salute, ma serve far evolvere la professione, andando a ritagliare dei contesti in cui potrebbe essere svolta. Gli infermieri di famiglia sono un’opportunità, ma l’ospedale per acuti ha bisogno di far evolvere le competenze specialistiche, perché è ciò che serve per rispondere ai problemi di salute delle persone che sono ricoverate».

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