Il virus sta perdendo i pezzi
«Più difficoltà a replicarsi»

Il virus sta cambiando, e «perde i pezzi»: questo potrebbe essere il segnale che il Sars-Cov2 ha maggiori difficoltà a replicarsi e diventerebbe quindi meno pericoloso.

Sono le conclusioni di uno studio internazionale, in fase di pre-print, ma già autorizzato alla pubblicazione sul Journal of Translation Medicine: uno studio di un gruppo di ricerca internazionale, concentrato in particolare in America e in Brasile, che vede come senior investigator Massimo Ciccozzi, del policlinico universitario Campus Bio-medico di Roma, ma anche molti altri nomi italiani, come Francesca Benedetti, prima firma, e David Zella.

Lo studio illustra una mutazione del Sars-Cov2 individuata partendo dall’analisi di 18 mila genomi del virus, catalogati da dicembre a luglio nel database internazionale che mette a disposizione di tutti gli scienziati i genomi virali isolati nel mondo: in una percentuale per la verità piccola (1 caso su 100), si è verificata una delezione in una delle proteine del virus.

«Lo studio potrebbe aprire diverse prospettive – spiega Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri – , la proteina in questione è la Nsp1 e la mutazione riguarda la perdita di alcuni frammenti, in particolare di tre aminoacidi, che hanno un ruolo importante nel modulare la risposta immunitaria dell’ospite ma anche nel favorire la replicazione dell’Rna del virus. In questo modo il virus ha più difficoltà a riprodursi e potrebbe diventare meno pericoloso. Va detto però che questa ricostruzione è frutto di “modelli virtuali”, non è stato fatto nulla in vivo né nell’animale né nell’uomo. Quindi stiamo parlando di ipotesi. E in più ci sono altri due fattori da tenere in conto: il primo è che questa variante è stata riscontrata su un numero molto basso, uno su cento, dei genomi analizzati. E in nessuno di quelli italiani ma anche in nessuno di quelli austriaci o tedeschi. In quelli svedesi invece questa mutazione la si trova nel nel 2% dei genomi analizzati».

Potrebbe spiegare come mai il numero dei malati in Svezia, che non ha fatto il lockdown, sta diminuendo?
«Forse sì. Diciamo che questo studio indica una strada : bisogna indagare di più sui soggetti asintomatici, che oggi vediamo aumentare e che si tende a etichettare solo come “portatori” di contagio, ma che potrebbero rivelarsi come coloro che aiutano a liberarci dal Covid».

Quale strada sta indicando ai ricercatori questa scoperta?
«I genomi analizzati nello studio sono molti. Ma per l’Italia ne sono stati analizzati solo poco più di un centinaio. E sono quelli raccolti fino a luglio. Da qui si potrebbe partire per esempio con uno studio concentrato su numeri più piccoli, e su aree specifiche: Bergamo potrebbe essere un terreno ideale per una ricerca di questo genere, dove ci sono molte persone con sieroprevalenza, e anche molti asintomatici, analizzando l’aspetto genetico a confronto con i dati clinici – rimarca Marina Noris, responsabile del Laboratorio di Immunologia e genetica delle malattie rare dell’Istituto Mario Negri-Centro Daccò di Ranica – . Al Negri abbiamo sequenziatori di nuova generazione fondamentali in una ricerca di questo tipo e per l’aspetto clinico da tempo abbiamo collaborazioni anche con l’ospedale Papa Giovanni. Se si potesse documentare questa delezione negli asintomatici e nei casi meno gravi si avrebbe una visione importante sul futuro andamento del virus».

E sul ruolo degli asintomatici: sono veicoli del virus? Tra di loro qualcuno porta la delezione documentata nello studio e perciò il virus colpisce meno?
«Forse la verità sta nel mezzo, e la genetica gioca un ruolo importante; ognuno di noi ha una memoria immunitaria diversa – continua Marina Noris – . E andrebbe anche investigato in una identica popolazione come è cambiato il genoma del virus nel tempo. Penso anche a una indagine, per esempio su un numero ristretto di asintomatici, 200, e un confronto con altrettanti contagiati con sintomi più severi. Il problema sta nei fondi, e nel tempo: queste ricerche hanno bisogno di risorse. Ma io credo che, in questo momento, mettersi al servizio della scienza sia un dovere morale: al Negri molti ricercatori si sono “riconvertiti” a lavori sul Sars-Cov2, ognuno con le proprie competenze».

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