«La mia battaglia contro il Parkinson
Evado con la mente e la fantasia»

Riccardo Merisio, ex carpentiere, colpito a 49 anni dalla malattia, racconta le passioni che lo tengono attivo.

C’è un’atmosfera calda e accogliente nel salotto di Riccardo Merisio, a Martinengo. Più che una comune stanza d’appartamento ormai sembra la plancia di un’astronave, attrezzata di tutto ciò che lo aiuta ad affrontare le giornate nel modo migliore. Il Parkinson non è stato gentile con lui, un uomo forte, che per tanti anni ha lavorato come carpentiere edile, e ora da solo non può più raggiungere neppure il bar all’angolo per il caffè del mattino. A tenergli compagnia sono televisore, dvd, libri, computer, le foto e i ricordi dei suoi viaggi, una poltrona confortevole, adatta a chi, come lui, ha una mobilità ridotta.

Come scrive Júlio Cortazar «le abitudini sono forme concrete del ritmo, sono la quota di ritmo che ci aiuta a vivere»: e per Riccardo le piccole routine quotidiane non sono fatte soltanto di gesti, ma anche di persone. La sua famiglia, i suoi amici: una comunità che gli si è stretta intorno negli anni di malattia e che non lo abbandona mai, come una rete di salvataggio che lo spinge a combattere e gli permette di dire: «Posso ancora essere felice».

«Sono ammalato dal 2005 – racconta Riccardo –. Sono già passati 14 anni. Mi sono accorto di star male perché non riuscivo più a camminare, a mettere un piedi davanti all’altro, ero completamente bloccato. All’inizio pensavo che fosse colpa della stanchezza, che forse lavoravo troppo. Il mio ruolo di carpentiere edile era pesante anche dal punto di vista fisico. Ho lavorato ancora per cinque anni, fino al 2010. Poi mi sono ritrovato su un tetto, a venti metri di altezza, con le gambe che tremavano e ho capito che non potevo più sopportare una situazione di quel tipo, ho dovuto smettere. Nel frattempo avevo incominciato le terapie nel reparto di neurologia di Seriate. Lo specialista a cui mi ero rivolto si era accorto subito che avevo il Parkinson dalla rigidità di movimento e dal tremore della mano destra».

Accettare quella diagnosi non è stato semplice: «Avevo 49 anni, e il medico mi ha guardato con tristezza, mi ha detto che ero troppo giovane. Purtroppo, però, ho dovuto accettarlo e andare avanti con la mia vita. È che il Parkinson pian piano ti logora, ti consuma». Riccardo allora viveva ancora con la madre e per cinque anni ha continuato più o meno come prima. «Le mie condizioni fisiche, però – continua Riccardo – nel frattempo sono peggiorate. Mi si è bloccato quasi completamente il piede destro, non potevo neanche più guidare, ho rottamato la macchina, che ormai era vecchia. Non avevo più mezzi di trasporto: una volta mi piacevano molto le motociclette, ma ho venduto l’ultima nel 2003, perché mi ero già accorto di non riuscire più a coordinare bene i movimenti. Dopo il 2010, però non mi bastava neanche più il bastone, ho dovuto dotarmi di un deambulatore».

Nel 2013 il suo neurologo gli ha proposto l’intervento di «Deep brain stimulatiom» (Dbs, stimolazione profonda del cervello) che prevede l’impianto di un dispositivo medico simile a un pacemaker per stimolare alcune aree del sistema nervoso. «Ho accettato perché mi hanno detto che queste placche mi avrebbero dato più tempo, una qualità di vita migliore. Non è stata una passeggiata, però. L’intervento è durato 11 ore, e i medici dopo poco hanno dovuto ripetere la procedura una seconda volta perché la stimolazione non funzionava bene». I miglioramenti, però, sono stati notevoli: «Il giorno dopo l’operazione ero già in piedi, mi sentivo più lucido, parlavo meglio. La Dbs ha rallentato la malattia».

Non è facile guardarsi intorno, vedere che la vita degli altri procede come sempre mentre la tua subisce continue battute d’arresto. Riccardo ha dovuto armarsi di grande coraggio, ma non ha mai rinunciato a sorridere. L’amicizia e l’affetto della sua famiglia sono i pilastri sui quali si reggono le sue giornate: «Al mattino mi alzo con calma e non tutte le giornate sono uguali. A volte mi sento in forze, a volte no. Mi capita di soffrire di solitudine, quando tutti sono a lavorare e io sono solo. Spesso però ci sono persone che vengono a trovarmi, anche solo per un caffè e due chiacchiere. Ho due fratelli e due sorelle, anche loro hanno ormai una certa età, ma quando possono mi fanno compagnia. Mia nipote Chiara viene tutti i giorni, appena finisce di lavorare mi aiuta in casa, mi prepara la cena».

La difficoltà più grande per Riccardo è dominare i movimenti involontari: anche quando è seduto sulla sua poltrona il suo corpo segue un ritmo tutto suo, costringendolo a continui piccoli assestamenti. È sempre alla ricerca di una posizione comoda, ma ogni due minuti torna ad alzarsi, a sedersi, a rialzarsi, medicando come può - con impacchi di ghiaccio e unguenti - i dolori muscolari. Questi continui movimenti moltiplicano il tempo, lo dilatano, rendono le giornate più lunghe e faticose. Riccardo però ha messo in atto molte strategie di resistenza: «Guardo la televisione, mi piacciono molto i film d’avventura, quelli con ritmi indiavolati e tanti effetti speciali, perché mi divertono e mi trasportano in un altro mondo».

Un’altra, brillante via di fuga dal grigiore quotidiano è la lettura: «Mi appassionano i saggi di argomento scientifico e in particolare i temi legati al futuro e all’universo, quelli che si lanciano in ipotesi ardite come la possibilità di viaggiare nel tempo». La sua terapia oggi è composta da sette farmaci da assumere nell’arco della giornata, Riccardo è molto attento e la segue con puntualità, senza mai dimenticarsene. Riccardo ha trovato un altro hobby che gli sta dando grandi soddisfazioni: la scrittura. Sul tavolo accanto alla poltrona tiene le bozze appena stampate dei capitoli che via via riesce a ultimare. «È il mio romanzo e mi sento libero di crearlo a mia immagine, come più mi piace. Parlo di me e un po’ invento. Racconto di un uomo che vive tra le nuvole, mi sono ispirato a una poesia di Majakovskij. Non sono certamente uno scrittore o un letterato, ho studiato soltanto fino alla terza media ma ho continuato a leggere per conto mio e a coltivare i miei interessi. Adesso è questo che mi tiene in vita».

Anche la sua collezione di dvd fa egregiamente la sua parte: «Se non posso muovermi fisicamente posso comunque evadere almeno con la mente e la fantasia. Ogni tanto vado al cinema, a qualche concerto, sono stato a sentire i Pink Floyd e Bruce Springsteen». Quando era più giovane Riccardo amava molto viaggiare: «Ho sempre avuto uno spirito ribelle, mi piaceva andare in giro senza troppa organizzazione, on the road, in compagnia dei miei amici. Tra le destinazioni che mi hanno affascinato di più ci sono Messico e Thailandia. In Messico sono andato a visitare la casa di Frida Kahlo e me la ricordo bene perché nella sua vita ritrovo un po’ di me stesso: anche lei ne ha passate tante, il grave incidente che ha avuto quando era ancora giovanissima ha segnato tutto il resto della sua vita, ha dovuto imparare - come me - a controllare il dolore, ed è riuscita comunque a creare opere bellissime. Per dipingere mentre rimaneva sdraiata a letto usava uno specchio. La sofferenza aguzza l’ingegno, cerco di prendere esempio da lei».

Fino all’estate del 2018 Riccardo riusciva ancora a muoversi abbastanza bene: «Poi, purtroppo, sono peggiorato, il Parkinson si è preso altro spazio, adesso non riesco più a uscire da solo. Spesso mi tormentano i dolori: devo cambiare posizione continuamente per trovare un po’ di sollievo. Quando mi alzo so già che dovrò attraversare una bella quantità di sofferenza. Per affrontare la giornata ci vuole coraggio. È una battaglia la mia vita, devo combattere tutti i giorni». Riccardo trae forza dai suoi sogni. «Vorrei di riuscire a portare a termine il mio libro, ci tengo molto. Ho rimesso in funzione il mio vecchio computer, è rimasto fermo per dieci anni ma fa il suo dovere». Aveva anche la passione della fotografia: «Non posso più andare in giro, e poi comunque le mie mani tremano troppo, però mi restano tanti bei ricordi». Tiene gli album a portata di mano, perché sfogliarli aiuta a scacciare la malinconia. Mostra alcuni scatti della Thailandia: ci sono le piante esotiche, i colori sgargianti dei templi buddisti, gli animali selvatici, le tigri, le scimmie i mercati.

Un posto al quale tornare con la memoria soprattutto nei giorni più difficili: «Questa malattia non ti lascia scampo. I medici mi hanno sempre dato buone speranze di riuscire a controllare i sintomi, ma io ho incominciato a capire bene cosa mi stava accadendo e che cosa fosse precisamente il Parkinson solo dopo due o tre anni. All’inizio avevo ancora l’illusione di guarire, di poter mantenere il controllo, poi mi sono reso davvero conto che non è possibile, che i sintomi peggiorano, e che bisogna fare i conti con ciò che accade. Noi parkinsoniani parliamo una lingua diversa rispetto alle persone sane. Abbiamo una diversa lunghezza d’onda, i nostri pensieri esplorano zone ad altri sconosciute, proprio perché dobbiamo fare i conti con tante situazioni difficili, con i farmaci, con le limitazioni dei movimenti. Mi pesa non poter uscire, non poter fare quello che voglio, penso però che sia sbagliato chiudersi in se stessi, come fanno alcuni, isolarsi, lasciare da parte il mondo. Condividere il dolore con altri può renderlo più facile da sopportare, ci si può aiutare a vicenda. Ci vuole delicatezza, i miei amici lo sanno: non mi piace, per esempio, che mi chiedano come sto, preferisco che mi pongano domande diverse. Sono felice quando vengono a prendermi e mi portano fuori: al ristorante, a vedere uno spettacolo. Ogni volta è una festa e cerco di godermela fino in fondo».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA