Le Foche: «Sì ai divieti mirati
ma la vera sfida restano i vaccini»

Francesco Le Foche, immunologo dell’Umberto I di Roma, non vede altre vie d’uscita se non quella di accelerare la campagna per l’immunizzazione. L’intervista: «Si deve mettere in campo un’organizzazione efficiente per vaccinare a tappeto, tenendo alta nel frattempo l’attenzione nei confronti delle varianti».

«Dobbiamo pensare alla campagna vaccinale come a una macchina da guerra da mettere in moto immediatamente. Credo nella capacità organizzativa dell’Italia, ma bisogna fare presto». Con la Lombardia da lunedì di nuovo in zona arancione e con i contagi che sono tornati a salire in maniera preoccupante, Francesco Le Foche, immunologo dell’ospedale Umberto I di Roma, non vede altre vie d’uscita: «Il vaccino è l’unica soluzione – dice – si deve mettere in campo un’organizzazione efficiente per vaccinare a tappeto, tenendo alta nel frattempo l’attenzione nei confronti delle varianti».

Professor Le Foche, gli ospedali si stanno di nuovo riempiendo; varianti del virus fanno paura, ma i vaccini ancora scarseggiano.
«L’Italia, come il resto d’Europa, sta fronteggiando un periodo di scarso approvvigionamento, che durerà probabilmente ancora un paio di mesi. Da maggio saranno disponibili più vaccini; ce ne saranno per tutti e sarà quello il momento in cui dovremo farci trovare pronti con una macchina vaccinale efficiente».

Nel frattempo le chiusure mirate, come quelle adottate anche in Lombardia, sono efficaci?
«Sì. La variante inglese ha acquisito circa il 37% in più di contagiosità e quindi dobbiamo contrastarla con grande attenzione. Zone rosse o arancioni mirate, anche a livello provinciale, potrebbero aiutare moltissimo».

Fino a qualche tempo fa, alcuni suoi colleghi parlavano della necessità di un lockdown generale.
«Tornare a una chiusura completa e prolungata come quella della primavera scorsa, potrebbe non essere la soluzione migliore; non dimentichiamoci che oggi il Paese è distrutto, sia a livello economico che psicologico».

Altri Paesi hanno scelto però di vaccinare in lockdown. Qual è la soluzione più efficace?
«Il lockdown durante la campagna vaccinale è un’ottima cosa, il problema è che l’Italia non può più permetterselo. L’anno scorso ne abbiamo fatto uno di due mesi che aveva azzerato il virus, poi però abbiamo riaperto senza prestare attenzione».

Per accelerare la Gran Bretagna ha preferito rimandare la somministrazione della seconda dose di vaccino. È un’opportunità che andrebbe presa in considerazione?
«Nei vaccini ad Rna messaggero, somministrare una prima dose e posticipare i tempi della seconda non credo sia possibile, anche perché c’è un pronunciamento dell’Ema che non tiene in considerazione questa opportunità. Però si potrebbe farlo, ad esempio, con AstraZeneca, mentre il vaccino di Johnson & Jonhnson già prevede una sola dose. Il siero di AstraZeneca è a vettore virale e dà una protezione molto significativa anche dopo 120 giorni. Quel che dovremmo controllare, piuttosto è se questa immunità può effettivamente essere utile a lungo anche per le varianti».

In che modo?
«Si dovrà vedere, per esempio, se questa poca pressione sul virus da parte del sistema immunitario rende il sistema immunitario stesso più fragile rispetto alle varianti. Ma servirà tempo per farlo. Adesso è giusto procedere alla vaccinazione di massa, tenendo conto che dobbiamo assolutamente sequenziare i tamponi e controllare la possibilità di esporci alle varianti».

È giusto accelerare la vaccinazione nelle zone in cui il contagio si alza?
«Credo ci debba essere una vaccinazione omogenea di massa, altrimenti si rischia il caos. Serve un’organizzazione precisa, fatta di protocolli e obiettivi chiari. La scienza in pochissimo tempo ci ha dato questi vaccini che sono prodotti biotecnologici avanzatissimi. Dobbiamo mettere in campo una politica sanitaria sul territorio in grado di sfruttare questa opportunità».

Qualcuno dice che sono arrivati «troppo» in fretta.
«Quelli ad Rna messaggero hanno alle spalle studi molto solidi e temporalmente lunghi. L’Rna messaggero si studia da 20 anni e la sua applicazione alle vaccinazioni da almeno 10. I vaccini contro il Covid, in particolare, sono stati accelerati dall’azzeramento della burocrazia e dal reperimento dei fondi, ma non è stato tolto nulla alla sicurezza».

Oltre ad essere più contagiose, si è capito se alcune di queste varianti sono anche più «cattive»?
«Qualcuno in Gran Bretagna considera la variante inglese potenzialmente più patogenica; in Europa ci sono studi in corso, ma non sembra essere così. Nessuna ricerca, al momento, dimostra che questa variante sia davvero più “cattiva”».

Mascherina, distanziamento e igiene delle mani sono ancora sufficienti?
«Sì, se attuati in maniera scrupolosa. Il problema è che non sempre avviene. Le varianti sono più contagiose, quindi dobbiamo stare più attenti, tuttavia quasi la metà della popolazione non indossa la mascherina in maniera corretta. Penso a chi l’abbassa mentre fuma o mentre parla, oppure ai giovani, che fanno meno attenzione e si assembrano più facilmente».

Le varianti interessano in maggior misura proprio i bambini e gli adolescenti. Lei chiuderebbe le scuole?
«Dobbiamo vigilare su quello che succede fuori dalle scuole e sulle dinamiche di trasporto; è lì che ci sono delle sacche in cui il virus tende facilmente a riprodursi. Serve una coscienza sociale rivolta a questo. I giovani devono capire che il comportamento di ognuno potrebbe portare danni anche agli altri. È una questione di educazione civica».

Lei ha dedicato un capitolo del suo ultimo libro alla partita Atalanta-Valencia del febbraio 2020, definendola una «bomba epidemiologica». Da allora gli stadi sono chiusi, tuttavia qualche sera fa tremila tifosi dell’Atalanta si sono trovati per incitare la squadra, assembrandosi per strada. Episodi come questo, insieme alla diffusione delle varianti, potrebbero portare a una nuova «bomba»?
«Purtroppo esistono ancora dei negazionisti, nonostante Bergamo abbia vissuto un dramma. La partita dell’anno scorso è un po’ il simbolo di questo dramma, ma allora la tifoseria ha partecipato a un’esperienza bellissima, senza sapere della beffa che si stava per creare, perché eravamo tutti all’oscuro di quello che sarebbe successo. Oggi, negazionisti a parte, portiamo le mascherine e siamo più attenti alle distanze. Una situazione del genere non credo potrà più ricrearsi».

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