Nuota controcorrente e lo stile è speciale
Così tiene la fibrosi cistica sott’acqua

Ci sono momenti in cui vivere è come nuotare controcorrente, senza sapere con certezza se è possibile raggiungere la riva.

Una sensazione di smarrimento che tutti abbiamo sperimentato, in modi diversi, nei momenti peggiori della pandemia. Per Giacomo Errante Parrino di Sedrina, 31 anni, affetto da fibrosi cistica, è una condizione quotidiana, ma lui non molla mai: affronta ogni giornata come una continua sfida; a sostenerlo sono il suo coraggio e le sue più grandi passioni. La prima è il nuoto di fondo, sulle lunghe distanze e in mare aperto: qualche anno fa ha attraversato lo stretto di Messina, partecipando a una gara, che è diventata strumento di sensibilizzazione e aiuto per la Fondazione per la ricerca sulla fibrosi cistica (Ffc). Poi c’è il suo lavoro di meccanico, tra macchine e motori, che svolge non solo in officina ma anche nell’autorimessa dei genitori, che abitano accanto a lui: «Ho ritirato due spider pronte per la demolizione e le ho restaurate» spiega sorridendo con un pizzico d’orgoglio.

La scoperta della malattia

La diffusione del coronavirus, purtroppo, lo ha costretto a sospendere qualsiasi attività: il rischio è molto elevato per lui, nonostante l’avvio della «fase 2» è difficile prevedere quando potrà tornare alla «normalità». «Quando sono nato, nel 1989 - racconta -, si sapeva ancora poco della fibrosi cistica. Molti miei coetanei non hanno avuto la diagnosi alla nascita come avviene ora, con lo screening neonatale. Ne conosco alcuni che hanno scoperto la malattia a 10 o 11 anni. Altri che magari sono stati benissimo fino a 35, fortunati perché avevano una delle rarissime mutazioni che provocano pochi sintomi, solo quelli respiratori e polmonari. Un amico, per esempio, se n’è accorto sottoponendosi a test di approfondimento perché desiderava un figlio e aveva problemi di fertilità, uno degli effetti secondari di questa malattia».

Il fattore ereditario

La variante della fibrosi cistica che ha colpito Giacomo coinvolge anche la digestione e la sua terapia deve includere gli enzimi pancreatici da assumere a ogni pasto: «Fino a cinque mesi stavo malissimo, non assorbivo il cibo, diventavo sempre più piccolo e magro. A quei tempi abitavamo a Milano e il mio pediatra frequentava ogni tanto la clinica Mangiagalli, dove già allora stavano conducendo studi sulla fibrosi cistica. Ha parlato del mio caso a un collega medico e dato che i sintomi corrispondevano mi hanno sottoposto a un primo test, risultato positivo. Dopo tre mesi è stata introdotta la possibilità dell’esame del Dna, che ha coinvolto anche tutti i miei familiari più stretti. Hanno scoperto che entrambi i miei genitori erano portatori sani del gene Cftr (Cystic fibrosis transmembrane regulator) responsabile della produzione di muco eccessivamente denso. Ho iniziato così una terapia che ha dato subito buoni risultati, ho ripreso peso, anche la mia capacità respiratoria è migliorata».

Sempre scrupoloso

Giacomo dopo questa «partenza in salita» ha sempre seguito in modo scrupoloso le terapie quotidiane, gli aerosol e la pep mask, e si ritiene fortunato: «Fino a 25 anni non ho mai avuto bisogno di un ricovero. Sono sempre stato molto attento a seguire le prescrizioni mediche e pratico moltissimo sport. Può darsi che questo abbia contribuito a preservarmi, almeno in quegli anni, dai numerosi soggiorni in ospedale che di solito, purtroppo, si rendono necessari alle persone con problemi simili ai miei». È cresciuto con la consapevolezza di essere «diverso», più fragile e bisognoso di attenzioni rispetto agli altri ragazzi, ma non gli è mai pesato fino a quando ha iniziato a lavorare: «Avevo sedici anni e una grande passione per i motori, sono diventato meccanico di macchine movimento terra. Mi sono reso conto però che la malattia mi creava parecchi ostacoli. Le terapie, infatti, richiedono almeno tre ore al giorno, metà al mattino e metà alla sera. Anche lo sport è quasi obbligatorio per le persone affette da fibrosi cistica, e richiede altro tempo ed energie».

Più energia in acqua

Giacomo ha scoperto che in acqua, sulle lunghe distanze, le sue prestazioni diventano simili a quelle degli atleti normodotati: «Ho meno fiato rispetto a una persona sana, anche il 30-40% in meno e non potrei mai competere su distanze brevi come i 50 o 100 metri. Su tratti molto lunghi, invece, con la tecnica giusta e con molta concentrazione ottengo risultati sorprendenti e mi prendo molte soddisfazioni. Ho iniziato perché mi piace moltissimo stare in mezzo alla natura, ammirare il cielo, l’acqua, i colori. Nello Stretto di Messina, per esempio, il mare è profondo e assume bellissime sfumature, di un blu intenso, ed è limpido e trasparente. Amo il senso di libertà che provo ogni volta che nuoto all’aperto. Preferisco le cose semplici, non ho bisogno di esperienze strane o estreme, mi rende felice anche solo poter uscire, restare al sole, godermi una bella giornata».

L’impresa della traversata

Sono iniziate così, quasi per gioco, le sfide sportive di Giacomo: «Mi alleno in piscina, poi quando è possibile mi metto alla prova all’esterno. Ho attraversato diversi laghi della Lombardia, da quello di Endine al lago di Como fino al Garda, ma nella parte più stretta, partendo da Limone. L’impresa dello Stretto di Messina non è stata semplice, perché ho dovuto ottenere il certificato medico agonistico e iscrivermi a una vera e propria gara, quindi ho dovuto superare anche gli ostacoli burocratici. Dopo mi sono misurato con il Golfo di Trapani, ma la traversata più bella è stata quella da Marsala, in Sicilia, fino all’isola di Favignana: sette-otto chilometri in mare aperto. In un periodo in cui stavo particolarmente bene ho affiancato ai normali allenamenti in vasca anche la corsa: riuscivo a percorrere 60 chilometri alla settimana, più 20 a nuoto. Non sono specializzato in un solo stile, li alterno tutti e questo è sicuramente un vantaggio». Lo sport, una vera e propria terapia, offre a Giacomo slancio per affrontare tutto il resto. Secondo la scrittrice americana Joyce Carol Oates «quando attraversi a nuoto un fiume reale, imprevedibile e infido, se riesci a raggiungere l’altra sponda sei una persona diversa rispetto a quella che è entrata in acqua». Così è stato anche per lui, che ha trovato in queste imprese nuovi semplici strumenti di convivenza con le difficoltà quotidiane.

Le implicazioni sul lavoro

«Dal punto di vista professionale – spiega Giacomo – le ricadute sono pesanti. Il mio sogno sarebbe potermi mettere in proprio un giorno, ma la legge 104 prevede tutele per il lavoro dipendente, nessun sostegno per un’attività come libero professionista o artigiano, perciò non è possibile. Sono stato fortunato a trovare lavoro, conosco tante persone con patologie più o meno gravi che non ci riescono, mandano le domande che spesso, però non vengono prese in considerazione. Il mio impegno, compatibilmente con le mie condizioni fisiche, è di cinque ore al giorno, non potrei sostenerne di più, così posso contare almeno su una minima entrata. Fortunatamente non ho impegni familiari, perché in questo momento non potrei sostenerli. La pensione di invalidità arriva a circa 278 euro e da sola non basta per vivere».

Amicizie e affetti

L’amicizia è importante per Giacomo, ma la malattia ha prodotto un processo di «selezione naturale»: «Quando sono incominciati stravizi e pazzie dell’adolescenza - chiarisce - ho dovuto farmi da parte, perché sapevo di dovermi preoccupare prima di tutto della mia salute. Ho conservato solo pochi legami». Non è semplice stare vicini senza farsi del male, neanche in condizioni normali, perché come scrive Marguerite Yourcenar «l’amicizia si può paragonare a una figura di danza ben riuscita, ci vogliono molto slancio e molto controllo, molta energia e tanta delicatezza, molte parole e molti silenzi e soprattutto molto rispetto». Ancor più complicato addentrarsi nella sfera degli affetti: «Ho sempre avuto difficoltà dal punto di vista sentimentale, perché la fibrosi cistica spaventa e condiziona in modo significativo le scelte di vita. Influisce sulle mie possibilità economiche, complicando anche atti semplici come offrire una cena o frequentare i locali, cambia la prospettiva sul futuro. So già che per avere un figlio dovrei ricorrere alla fecondazione artificiale, e una donna accettando di starmi accanto dovrebbe anche sapere di dover contare soprattutto sulle sue forze, perché un giorno potrei non esserci più. Ho avuto delle relazioni, ma al momento di coinvolgere le famiglie alla fine saltavano sempre».

Una lunga quarantena

La pandemia ha aggiunto inquietudine e pericolo alla vita di Giacomo: «Ho evitato il contagio, perché a fine gennaio sono stato bloccato a casa da una borsite al ginocchio seguita da un’infezione. Quando sono guarito il covid-19 si stava già diffondendo, così il medico mi ha prolungato la malattia. A fine febbraio nella mia ditta si sono ammalati numerosi colleghi, due di loro hanno purtroppo perso i genitori. Fra l’altro l’emergenza ha costretto i medici del centro specializzato di Milano, dove sono in cura, a occuparsi dei malati di coronavirus, chi ha avuto bisogno di visite e di ricoveri in questo periodo è stato dirottato in altre regioni meno colpite dall’epidemia. Per ora l’unica certezza è che dovrò restare in casa ancora per un bel pezzo». La speranza per il futuro arriva dai nuovi farmaci, in fase sperimentale, che stanno allungando l’aspettativa di vita oltre i 40 anni previsti in media fino a poco tempo fa: «Sono molto efficaci, hanno già salvato molte vite - commenta Giacomo -, ma per ora li somministrano ancora a pochi, solo per uso compassionevole. È dura sapere che potresti guarire e non avere accesso alle terapie. Purtroppo è un problema che non riguarda solo la fibrosi cistica ma anche altre patologie rare. Speriamo che la situazione possa cambiare. Non mi arrendo, la vita è troppo bella».

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