Per il lago un grande esame di maturità
Il turismo per pochi intimi non basta più

Piaccia o no, la passerella di Christo ha il merito di aver messo il nostro lago con le spalle al muro: se non altro lo spingerà verso quell’esame di maturità che ha sempre preferito rinviare, crogiolandosi in un’eterna adolescenza. Rimanere un posto per villeggianti intimisti, melanconici e un po’ snob ha indubbiamente il suo fascino.

Ma di romanticismi in quest’epoca, purtroppo, non si campa. Il Sebino finora ci era riuscito ingannandosi, facendo finta di non sapere che sino a qualche anno fa a mantenere le famiglie erano soprattutto le fabbriche: siderurgia nell’alto lago, cementifici nel medio, guarnizioni nel basso. Escluso dai Grand Tour ottocenteschi e trascurato dall’alta borghesia milanese di inizi ‘900 che preferiva villeggiare in Liguria, sul Maggiore o sul Lario, il Sebino s’è presto dato una vocazione industriale di cui è rimasto prigioniero fino a una quindicina di anni fa.

Il turismo qui è sempre stato visto come una cosa in più e turisti e villeggianti vissuti come un fastidio piuttosto che come una risorsa. Colpa dell’innata chiusura di noi lacustri: protetti alle spalle dalle montagne e di fronte da uno specchio d’acqua da cui – a differenza del mare – poteva al massimo arrivare il dirimpettaio, e cioè uno antropologicamente simile, ci siamo fabbricati un guscio che via via s’è trasformato in gabbia. In più, ci si è sempre messo quell’impasto di gelosia e presunzione puerile di chi considera il suo paese il posto più bello del mondo e chi viene da fuori un intruso da cui preservare l’habitat.

Certo, il turismo mordi-e-fuggi che ha caratterizzato le nostre sponde fino a qualche anno fa non è gratificante, porta più disagi che benefici. Il gitante che piomba in massa la domenica pomeriggio e vuole parcheggiare l’auto a due metri dal lungolago, ingolfando la viabilità e ripartendosene dopo aver consumato al massimo un cono gelato, da queste parti era visto come la peste (a parte gelatai e baristi, ovviamente). Ci si sentiva più lusingati dai rari tedeschi in sandali e calzini che capitavano a chiedere indicazioni sulla chiesetta o sugli scorci segreti. «Ah, fossero tutti così», si sospirava. Sì, ma cosa è stato fatto per attirarli? Poco o nulla, almeno fino a poco tempo fa. Tanto, qui si campava per lo più col posto fisso negli stabilimenti. Ora, invece, con la crisi produttiva e le delocalizzazioni, ci si è accorti che il turismo diventa una scelta pressoché obbligata. E, Iseo a parte, si scopre di essere partiti in tremendo ritardo. Anche qui, colpa di una mentalità arretrata in materia. Si è sempre pensato al villeggiante idilliaco, d’animo ottocentesco, che si ferma a lungo nello stesso posto, magari senza mettere piede fuori dal paese di cui è ospite. Così, la logica del distretto, basilare di questi tempi, ha faticato a farsi largo. Continuavano piuttosto ad andare in scena patetiche rivalità di campanile: Sarnico è più bello di Paratico, però Paratico è più bello di Tavernola, però Tavernola è più bella di Marone, e così via, come in una gara di «naècc». Negli ultimi anni, invece, ci siamo resi conto che non potevamo più trastullarci con queste sfide da asilo Mariuccia: e ci siamo messi a rincorrere anche il fin qui disprezzato gitante mordi-e-fuggi. Molti paesi ne hanno beneficiato, mettendo mano all’arredo urbano, recuperando lidi e centri storici. Siamo sulla buona strada, che però è ancora lunga.

Il primo, salutare schiaffo ce l’ha rifilato il turismo low-cost, alimentato dalla vicinanza con l’aeroporto di Orio, con gente che vuole spendere poco, soggiorna al massimo un paio di giorni nei b&b e in queste 48 ore va a visitare Venezia, Milano, Città Alta, a bere le bollicine in Franciacorta e sul lungolago approda se avanza tempo. Il lago è scelto come punto d’appoggio, perché è comunque una meravigliosa cornice, ma non è la meta principale. Questo abbiamo faticato ad ammetterlo a noi stessi. Abbiamo faticato, da supponenti che sognavano di ospitare gente da Grand Hotel, a capire che questo tipo di ricezione non era un adattarsi a un turismo di serie B. E questo è proprio il tipo di ospite con cui avremo principalmente a che fare in queste due settimane. Sarebbe stato scellerato snobbare un’occasione simile e gli amministratori locali bene hanno fatto. Tanto per fare i conti della serva, quanti milioni di euro sarebbero serviti per farci una pubblicità planetaria come questa? Centinaia, come minimo. Certo, l’impressione è che, per paura di farcelo sfuggire, ai piedi di Christo sia stato steso un tappeto rosso. Ottenere, ad esempio, permessi per un’opera di queste dimensioni in così poco tempo è un prodigio da burocrazia teutonica più che italiana. Andavano sicuramente tenute in maggior considerazione le esigenze della popolazione e l’impatto che la massa di visitatori può avere su un luogo così piccolo come Monte Isola.

Ha detto bene da queste colonne la blogger Giulia Inverardi: forse c’era bisogno di un dibattito, non per «non fare» ma per «fare meglio». Ma si è probabilmente avuto timore, perché in Italia il dibattito è spesso sinonimo di estenuante melina.

I «Floating piers» hanno senz’altro parecchie controindicazioni. Ma il sospetto è che siano l’albero che cade: il clamore mediatico e il minaccioso esercito di visitatori che si prospetta all’orizzonte per questi 16 giorni fanno più rumore della foresta di fabbriche su cui si reggeva l’economia lacustre e che per decenni (qualcuna ancora adesso) ha inquinato in silenzio. Vedremo se questo lago, dopo la meraviglia e il caos della passerella, saprà cambiare passo o si troverà a consumare l’ennesimo rimpianto.

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