Ruxolitinib e cortisone, lo studio
«Mortalità più bassa del 70%»

Sulla rivista internazionale Leukemia gli esiti del lavoro condotto dal Policlinico San Marco su 75 pazienti Covid, ricoverati tra marzo e aprile.

Le frecce all’arco della comunità scientifica aumentano. Aumentano rispetto alla prima ondata dell’epidemia, quando - di armi per combattere l’infezione da Covid-19 - ce n’erano poche, pochissime.

Lo sa bene un gruppo di specialisti del Policlinico San Marco di Zingonia (gruppo San Donato) che ha appena pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale Leukemia uno studio messo a punto proprio nell’ospedale bergamasco.

Secondo gli specialisti, un trattamento precoce e mirato con combinazione del farmaco ruxolitinib a basso dosaggio e cortisone ridurrebbe del 70% la mortalità da Covid-19. Una conclusione a cui il team è arrivato partendo da una ricerca condotta su 75 pazienti ricoverati nell’istituto di Zingonia fra marzo e aprile, tutti positivi al virus e affetti da forme di polmonite.

Il farmaco

I ricercatori hanno ipotizzato che l’eccessiva infiammazione tipica dell’infezione da Covid-19 potesse essere controllata dal ruxolitinib, un farmaco che appartiene agli inibitori della proteina Jak e che è già utilizzato per il trattamento di una sindrome ben precisa, dal nome piuttosto complesso, la linfoistiocitosi emofagocitica: si tratta di una patologia caratterizzata proprio da una ipersecrezione di citochine molto simile a quella osservata nell’ infezione da Covid-19.

«L’uso del ruxolitinib off-label, ossia con altra indicazione rispetto al suo utilizzo corrente, è stato approvato dal comitato etico unico nazionale e dall’Aifa, per l’utilizzo in emergenza, nell’ambito delle cure compassionevoli – spiega Andrea D’Alessio, responsabile dell’Unità di Medicina Interna e Oncologia del Policlinico, tra i principali autori dello studio –. In diverse sperimentazioni, sia italiane che internazionali, aveva dato primi segnali incoraggianti: abbiamo quindi deciso di approfondire testando il farmaco su una casistica più ampia, somministrandolo precocemente ai pazienti appena ricoverati, prima che si determinasse un danno polmonare e vascolare sistemico».

Lo studio messo a punto nell’ospedale bergamasco ha coinvolto una platea complessiva di 75 pazienti, così suddivisa. Da un lato 32 pazienti sono stati trattati con un ciclo di 10 giorni di ruxolitinib a basso dosaggio associato a metil-predisone (cortisone), dall’altro 43 pazienti (ricoverati nello stesso periodo e con le stesse caratteristiche cliniche e radiologiche) sono stati trattati con antivirali e cortisone, ossia con la terapia suggerita dal protocollo base di cura.

Risultati chiari

I risultati dello studio sono stati estremamente chiari: nel gruppo trattato con ruxolitinib e cortisone la mortalità si è abbassata del 70%, ed è stata osservata anche una maggiore riduzione dell’attività infiammatoria.

«È bene ricordare che la Sars-CoV-2 è una patologia che riguarda l’intero organismo, sostenuta da una reazione immunitaria abnorme, non regolata, in cui il sistema immunitario produce una quantità enorme di mediatori infiammatori, le citochine – continua D’Alessio –. Ebbene, questo farmaco, che se sospeso rapidamente viene eliminato dall’organismo, è in grado di ridurre il rilascio di citochine pro-infiammatorie. L’esperienza acquisita nella gestione di ruxolitinib durante la prima ondata della pandemia, ci permette oggi di avere un’arma in più per curare i nostri pazienti. Diversi studi internazionali sono attualmente in corso, proprio per confermare questi dati».

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