«Sì alle riaperture anticipate ma non escluderei altre chiusure»

Per il microbiologo Pierangelo Clerici l’imperativo è la prudenza. «Dobbiamo comunque mettere in conto la possibilità di un altro lockdown».

Sì alle riaperture anticipate, purché si rispettino le regole e soprattutto si abbia sempre pronto un «piano b», ovvero il ritorno immediato alle chiusure, se i contagi dovessero tornare a salire. «Siamo in una fase in cui non possiamo più permetterci di sbagliare; se fossimo tornati in lockdown quest’inverno, adesso probabilmente qualcosa sarebbe già aperto. Speriamo piuttosto di tornare alla normalità almeno per Natale».

È l’auspicio di Pierangelo Clerici, presidente dell’Associazione microbiologi clinici italiani e primario di Microbiologia all’ospedale di Legnano, che riconosce: «Avremo a che fare con questo virus e con le sue varianti ancora per tanto tempo; dovremo fare forse un richiamo all’anno e, nel frattempo, modificare i vaccini, come accade per l’influenza».

Professor Clerici, dal 26 aprile tornano le zone gialle. Con un po’ di anticipo rispetto al previsto. È preoccupato?
«Se prosegue questo trend, credo che sia utile programmare riaperture mirate, pur mantenendo delle limitazioni. Non dobbiamo però pretendere aperture totali, né l’assoluta libertà. Solo così potremmo pensare di riaprire ulteriormente in estate e, se la campagna vaccinale proseguirà spedita, di essere liberi per Natale. Certo non prima, e soprattutto sarà importante avere in tasca un “piano b” per intervenire subito qualora comparisse una variante resistente ai vaccini o ci fosse un incremento inaspettato dei contagi».

Cosa intende per un «piano b»?

«Un ritorno al lockdown, che senz’altro nessuno si augura, tantomeno noi medici. Mi rendo conto che ci si abitua in fretta alle riaperture, mentre si fa più fatica quando si torna indietro. Ma la pandemia ci ha insegnato che non è escluso, a fronte di alcuni passi avanti, che se ne possa fare anche uno indietro. Capiterà sempre più raramente, ma potrà ancora succedere».

L’anno scorso l’Italia riaprì a maggio con poche decine di migliaia di positivi. Oggi ce ne sono ancora mezzo milione. Si può parlare di aperture in sicurezza con questi numeri?

«Si può e si deve parlare di aperture controllate, di luoghi che possono essere frequentati previo tampone o vaccinazione. Di sicuro è un rischio calcolato, perché quest’anno abbiamo i vaccini e le persone a rischio si stanno vaccinando. D’altronde è difficile non aprire, in un periodo in cui la campagna vaccinale dà delle speranze».

Quanto pesa non aver fatto il lockdown in inverno?

«Molto. Avremmo dovuto farlo quando la campagna vaccinale è iniziata, in modo da garantire una bassa circolazione del virus, com’è accaduto in Inghilterra. Ciò non è avvenuto e la vaccinazione da sola non ha limitato, e non è in grado di farlo tuttora, la circolazione del virus, considerando tra l’altro la comparsa delle varianti. E ne abbiamo pagato le conseguenze».

A quest’ora qualcosa sarebbe già aperto?

«Probabilmente sì».

Dopo il caos su AstraZeneca, il vaccino di Johnson & Johnson è stato bloccato ancora prima di cominciare. Questa prudenza è sempre giustificata?

«Sì, perché dobbiamo agire in condizione di precauzione totale: meglio bloccare subito, verificare se ci siano nessi di causalità con eventuali controindicazioni, e individuare le categorie a rischio. Solo dopo si può aprire in assoluta tranquillità. Certo, su AstraZeneca si è fatta una pessima comunicazione e ora speriamo di non ripetere lo stesso errore con Johnson & Johnson. Non dimentichiamo che sono due vaccini a vettore virale, per cui ci si può sempre aspettare qualcosa».

Si è parlato di far slittare il richiamo di Pfizer. È un’ipotesi percorribile?

«Sì, perché si è visto che anche dopo 42 giorni è efficace nel recuperare la memoria immunologica della prima vaccinazione. L’operazione ha un senso per vaccinare più gente, ma se i vaccini arriveranno in maniera cospicua non ce ne sarà bisogno».

Bisognava farlo prima.

«Sì, ma dipende dalle forniture e purtroppo ogni giorno ci sono novità che cambiano i programmi».

Si parla sempre più spesso della necessità di vaccinarsi contro il Covid anche nei prossimi anni. Dobbiamo prepararci davvero a questa possibilità?

«Succederà come per l’influenza e potrebbe durare anni. Fino a qualche tempo fa pensavamo che potesse scomparire a breve, in realtà l’arrivo delle varianti ci fa pensare che non sarà così».

Ci sono vaccini che hanno un effetto a vita sulle malattie infettive, altri no. Perché?

«Dipende dalla tipologia di memoria immunologica che viene scatenata. Alcuni vaccini non stimolano una memoria permanente, per cui bisogna fare i richiami, come l’antitetanica. In pratica non si stimola il sistema immunitario attraverso antigeni che si legano con i linfociti, mantenendo dunque la memoria immunologica. Per questo si ha un effetto solo transitorio. Le malattie importanti, però, una copertura permanente ce l’hanno».

Il Covid non l’avrà mai?

«Ci sono virus che non mutano in maniera radicale; questo invece, come quello influenzale, può cambiare di anno in anno e quindi scoprirci con la vaccinazione che abbiamo fatto l’anno precedente. Il Covid cambierà e dovremo preparare un nuovo vaccino. Non sappiamo ancora se, modificandosi, questo virus perderà anche di efficacia. Se così sarà, potremo pensare di rivaccinarci per un paio d’anni, poi magari non ce ne sarà più bisogno».

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